“Per molti, libertà è la facoltà di
columnist
Quanto vale la libertà?
scegliere le proprie schiavitù”
Gustave Le Bon
Ho sempre ritenuto questione non corretta rispondere ai lettori, che hanno tutto il diritto di esprimersi come meglio credono. Ma stavolta credo sia giusto fare un’eccezione rispetto al dibattito sollevatosi sull’ultimo articolo, e spero i lettori vorranno perdonare alcuni accenni alla mia persona, in genere assolutamente da evitare nel lavoro giornalistico, ma stavolta quanto mai necessari. Vista l’ormai lunga, ahimè, vita vissuta, non mi sorprendono più le offese, gli insulti gratuiti, le calunnie, i fraintendimenti, il fuorviare, i pregiudizi, la superficialità. Neanche la cattiveria mi sorprende più. Veniamo al mondo anche per avere questi comportamenti poco nobili, e bisogna accettarli. Tranne la cattiveria, che mentre ne parlo fa sovvenire alla mente un tizio ben preciso, di cui non farò il nome. La cattiveria è l’unica cosa a cui non voglio dare né importanza né un contesto di dialogo; è la miserabilità dell’animo umano. Lascio il miserabile al godimento della sua cattiveria. Uno dei pochi privilegi dell’essere anziani, categoria alla quale appartengo con serenità, è quella di avere veramente la possibilità di fare pace con il mondo. Il calcio, e lo sport in generale, dovrebbero essere forieri di quei valori che dovrebbero riconciliare con il mondo. Ma il mondo, esattamente come il Vangelo che ne è uno tra i più seguiti interpreti (gli individui che vivono in un contesto culturale cristiano, sono nel complesso quasi due miliardi), è spesso segno di contraddizione. Quindi può capitare come i valori dello sport vengano male interpretati o, peggio, fuorviati completamente. Fatta questa necessaria premessa, veniamo a noi.
In primo luogo vorrei precisare una questione per certi versi da me data, probabilmente sbagliando, per scontata: io sono per metà italiano. Mia madre era italiana. Ho passato metà della mia esistenza in Italia. Quando qualcuno vorrebbe silenziarmi sulle questioni italiane sottolineando la mia “inglesità”, non solo dice una sciocchezza nella sostanza, perché nel mondo chiunque può parlare e criticare l’Italia e qualsiasi altro Paese di cui ritenesse di doverlo fare (e non deve scusarsi per questo, chiaro?), ma, nel mio caso, dice una sciocchezza anche nella forma, avendo io la doppia nazionalità. Vorrei aggiungere, ai buontemponi continuamente impegnati a fare gli indignati militanti perché mi permetto di criticare questioni italiane, che anche mia moglie è italiana. E persino la mia unica nipote è italiana. In un mondo ideale non ci sarebbe stato bisogno di fare tale precisazione, ma il mondo non sarà mai ideale.
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Noi abbiamo il dovere di agire per renderlo tale, essendo però consapevoli che mai lo sarà. Colui che collabora con me nel tenere questa rubrica, non solo è italiano fino al midollo (ha un amore per l’Italia che va oltre ogni immaginazione), ma è anche tifoso sfegatato del Toro. E quest’ultima cosa la sto precisando, perché quelle rare volte in cui “Loquor” ha trattato di temi legati al Toro, qualcuno se ne è uscito argomentando il poco diritto a farlo, in quanto il sottoscritto non è tifoso della squadra che fu di Valentino Mazzola. Carmelo Pennisi è un noto tifoso del Toro, e potrebbe parlarvi dell’esistenzialismo granata per settimane. È curioso notare come gli intolleranti integralisti provino sempre ad elencare motivi di appartenenza per cui non si possono mettere in discussione le loro granitiche convinzioni. Se non appartieni, sei manchevole.
E veniamo alla questione più spinosa: il comportamento che gli italiani stanno avendo, classe dirigente e non, sulla triste questione del Covid-19. Anche qui è necessaria una rapida premessa. Come alcuni sapranno, chi scrive è affetto da una forma tumorale e si sta sottoponendo ad un trattamento deciso di chemioterapia, notoriamente causa di un azzeramento quasi totale di ogni difesa immunitaria. Questo mi promuove, purtroppo, ad essere un serio candidato a morire di Covid-19, quindi conseguentemente impossibilitato a parlare a cuor leggero di questa malattia. Dovessi scegliere per un egoistico interesse, per me l’Italia potrebbe rimanere a casa fino al momento della scoperta di un vaccino. Ci vorranno sei mesi? Un anno? Non importa, l’importante è che io stia al sicuro. Ma esiste solo il mio interesse di chemioterapico? Chi ha provato a paventare un mio rimanere insensibile davanti ai ventimila morti per Covid, fa parte o della categoria dei miserabili di cui sopra, oppure è affetto dalla condizione del poliziotto psicologico di orwelliana memoria. Sto solo provando, da circa due mesi, ad osservare questo fenomeno da più angolazioni, e lo sto facendo perché il dovere di chi fa comunicazione risiede proprio nel porsi delle domande e nel fare conseguenti indagini. Non ho nemici precostituiti, non ho interessi particolari nell’additare qualcuno, faccio solo, magari con molti inevitabili errori, il lavoro richiestomi da questa testata. Se a volte critico Giovanni Malagò, è solo perché costui è il presidente del Coni e alla libera stampa deve non solo rispondere, ma anche accettarne i giudizi a lui non favorevoli. Citando un concetto espresso con chiarezza meritoria da Enrico Mentana, “la stampa non è la buca delle lettere dei potenti”. E un presidente del Coni non può, semplicemente, ripetere da mesi come la cosa più importante sia la salute, perché un dirigente del suo livello dovrebbe sapere come nella gestione della cosa pubblica, la salute è una delle cose più importanti, non la sola cosa più importante.
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Molti italiani comprenderanno questa fondamentale verità tra qualche mese, allorché la crisi economica si abbatterà su di loro con una violenza come nessun italiano ha mai visto dall’unità ad oggi. Quel giorno, la facile retorica del presidente del Coni scagliata contro il mondo del calcio preoccupato incoscientemente, a suo dire, dal voler riprendere il prima possibile i propri campionati, si sgretolerà di fronte al franare economico di svariati club calcistici. Il fatto come in questo momento non si possa parlare della questione economica, senza essere prontamente additati come una sorta di criminale della salute pubblica o di menefreghismo di decesso altrui, è frutto di una massiccia campagna stampa tesa a convincere gli italiani del loro sacro dovere di restare tappati in casa. Teorema dal quale ormai non si può derogare, perché il “Grande Fratello” ha stabilito che così va fatto. Le partite Iva non sanno più come mettere qualcosa a tavola per le loro famiglie? Non importa. Numerose piccole/medie imprese sono fallite o stanno per fallire? Non importa. Il sistema delle pensioni è fortemente a rischio, a causa di mancato gettito? Non importa. Numerosi cittadini non hanno più i soldi per curarsi? Non importa. La crisi economica procurerà molti più morti, per varie ragioni, del Covid-19? Non importa. Non si può mettere in discussione niente dei decreti legati al “io resto a casa”, perché altrimenti, secondo alcuni, si manca di rispetto ai ventimila morti. Quindi Gabriele Gravina, al quale non ho mai risparmiato critiche, dovrebbe rimanere seduto e zitto, in attesa che il virus, per magia, faccia la sua scomparsa. E serve a poco, in un clima di isteria generale, ricordare come il virus non sparirà per incanto e come nel calcio non lavori solo Cristiano Ronaldo, ma anche l’umile magazziniere o il giardiniere con i loro modesti stipendi, spesso unico sostentamento per la famiglia.
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Un mio amico, nonostante abbia studiato per tutta la vita il nazismo e i suoi epifenomeni, non riesce a capacitarsi come una delle nazioni più acculturate del mondo abbia potuto identificarsi in poco tempo nei concetti di Alfred Rosenberg e Adolf Hitler. Secondo Gustave Le Bonne, autore del celebre saggio “Psicologia delle Folle”, un agglomerato di persone è sempre geneticamente predisposto a lasciarsi suggestionare da parole, formule e immagini estremamente semplificate. Slegate da ogni ragionamento e da ogni prova l’importante è solo ripeterle ossessivamente, e il gioco è fatto. Autorevoli studi testimoniano come ci vollero vent’anni per “denazificare” la Germania, assolutamente restia a fare i conti con il proprio passato. Perché credere per anni a frasi tipo “la nazione, o meglio, la razza non consiste nella lingua, ma solo nel sangue”, non è cosa che si possa dimenticare in poco tempo, nemmeno di fronte ad una cruda verità fattuale. Perdere la libertà e l’autonomia di giudizio può essere questione di poco tempo e facile, recuperarle può essere qualcosa di lungo e molto doloroso. La libera stampa ha il dovere di ricordarlo ogni momento, anche se ascoltare questo può far male alle orecchie e alla mente dei suoi fruitori. Anche se la paura di morire pare aver preso il sopravvento su qualsiasi cosa. La colpa grave di tutta la classe dirigente italiana, è di aver accettato di “spegnere” il lavoro in Italia, senza minimamente pensare a come il Paese sarebbe dovuto poi ripartire. Si può pensare al prima senza pensare anche al dopo? Bene quindi fanno ora i Gravina, gli industriali, gli artigiani, le partite Iva a porsi il problema della ripartenza e del lavoro. I morti per il Covid sono stati soprattutto gli anziani, cioè parte di coloro che avevano reso ricca e forte l’Italia. Non è stando chiusi ostinatamente in casa che renderemo onore alla loro memoria, piuttosto è cercando in ogni modo di salvare ciò da loro costruito. Alla mia età e con la mia situazione di salute, amare l’Italia è una delle poche certezze ad essermi rimaste. Lo devo a mia madre, lo devo a me stesso, lo devo a tutte quelle persone che verranno dopo di me. Ma questo semplice concetto, il miserabile di cui sopra, non potrà davvero mai capirlo.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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