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Quel che Maxi Lopez non ha capito

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Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "È rimasto solo Maxi Lopez a illudersi che 'se in Italia succede quello successo in Francia (stop definitivo ai campionati) scoppia una guerra mondiale' "
Anthony Weatherill

Predisponiti all’inatteso

Marcello Veneziani

È sempre più difficile parlare di cose da fare, di valori da preservare, di memoria condivisa, di futuro, di fronte alla maggioranza di un Paese deciso a restare completamente concentrato su un presente da reclusi casalinghi. Ma un primo tentativo di tirare le somme, dopo mesi di immobilità assoluta, bisogna provare a farlo. Personalmente mi ha colpito come la relativizzazione di ogni motivo per cui provavamo a dare qualità alla nostra vita sia stata di una immediatezza sorprendente. Non avrei mai immaginato, per esempio, che le persone potessero tranquillamente rinunciare ai riti religiosi, facendo così regredire un’occasione vitale di senso a bene voluttuario. La relativizzazione ha fatto emergere, nel caso del calcio, delle critiche feroci, a tratti anche aggressive e violente, nei confronti dell’eccessiva ricchezza di alcuni suoi diversi componenti. E’ un emergere alla visibilità di uno stato d’animo presente, a mio parere, da tanti anni fra i tifosi. Stato d’animo rimasto nell'ombra per molto tempo, perché coperto dalle luci di una ribalta continua dell’evento calcio. Da quando il calcio è diventato sempre più un prodotto costosissimo di spettacolo, in Italia ha attirato dei rancori che, in fin dei conti, erano prevedibili.

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Dopo le dichiarazioni di Ivan Rakitic (“sono pronto a giocare a costo di essere contagiato”), le reazioni sui social italiani contro il giocatore croato del Barcellona, hanno avuto un solo riferimento costante molto chiaro: sei una persona privilegiata e ricca, quindi non hai diritto di parlare. Anzi, peggio, siccome non soffri, probabilmente non hai la statura esistenziale per affrontare certi argomenti. Se uno si fermasse a ragionare per un attimo, uscendo dalla pressione esercitata dai propri stati emotivi, capirebbe molto facilmente come non sia solo la sofferenza a formare la statura esistenziale di un uomo,e soprattutto come la ricchezza può certamente fare molte cose, ma non potrà mai proteggere contro la dose di sofferenza dovuta inevitabilmente a tutti gli esseri viventi. Ma c’è questa repulsa verso il calcio montata come nelle catacombe montò la grande rivoluzione cristiana, fervida stura della cultura occidentale. La rabbia esistenziale, spesso figlia di una rabbia sociale, si presenta sempre dopo un lungo periodo di apatia. Un periodo in cui il mondo attorno, i valori in cui si credeva, si trasforma talmente tanto, da provocare il fenomeno dell’estraniamento. Nel calcio da almeno quarant'anni sono in corso dei cambiamenti così radicali, da aver non solo tracciato un solco tra le sue origini di sport della classe proletaria e il presente fatto di platea mondiale voluto dalle multinazionali, ma anche da aver stabilito come questo sport debba soprattutto essere un fenomeno ludico da tv digitale globale. Serve agli sponsor, serve alle televisioni, serve ai giornali, serve al consumo diretto e indiretto. Ma forse non serve più allo stato esistenziale, che nel tempo ne ha fatto la sua fortuna. E allora se prima era accettabile che ci fossero dei giocatori con una paga superiore alla media dei lavoratori di ogni genere e grado, ora non lo si accetta più. E non perché i guadagni siano diventati oggettivamente smodati, rispetto ad un giocatore degli anni 60, ma perché non c’è più vero legame tra giocatore, maglia e popolo.

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La maglia ha perso il ruolo di mediatrice tra l’olimpo degli attori principali del calcio e il popolo, che si è reso conto di essere stato scippato di qualcosa che forse non riavrà più indietro. E allora ecco nascere la rabbia che, attenzione, come diceva Wilehm Reich è un’emozione secondaria rispetto alla frustrazione, stato emotivo provocato sempre dal dolore. Il dolore provato verso il giocatore, di cui tutti sono ormai consapevoli essere strumento interessato di procuratori messi come torre di guardia da un sistema dal compito prioritario di macinare utili, ha dato il via a un clima di rabbia repressa, a lambire pericolosamente uno stadio di odio latente. Ecco, quindi, il calcio, un tempo amato perché avvertito come strumento di coesione sociale e di memoria, tanto da sentirlo quasi come un fratello invisibile con il potere taumaturgico di poter lenire qualsiasi nostro dolore, diventare un nemico su cui riversare ogni tipo di tensione provocata da una società ciclicamente molto violenta e devastante. È Caino che non riesce più a riconoscere Abele come suo fratello, perché c’è il tarlo di non essere più riconosciuti come meritiamo. Il tifoso sente venire meno quella fratellanza, anche con i giocatori, un tempo alla base di quell'amore di cui il calcio si sempre nutrito. E allora il riferimento di Rakitic, sorpreso di non leggere sui giornali nulla sulla passione della gente, invece di generare condivisione, provoca solo rabbia e battute sarcastiche. Nemmeno per un secondo la gente pensa come il giocatore del Barcellona possa essere in buona fede, perché ormai la frattura tra Caino e Abele si è consumata irrimediabilmente. Ognuno sta andando per la propria strada, e la sensazione di un tifoso ormai pronto ad uccidere metaforicamente un giocatore, nell'alveo del proprio mondo ideale, è sempre più chiara.

Siamo di fronte ad un cambiamento emotivo epocale verso il calcio. Nessuno, nel 1946, si sarebbe mai sognato di detestare i giocatori del Grande Torino, solo perché si erano messi in testa di giocare e gioire delle loro vittorie, in un’Italia devastata dalla guerra e in un’Europa dove erano morte sessanta milioni di persone in soli sei anni. Anzi, quel Toro era stato salutato come messaggio di speranza. Ed era vero. Chi ama il calcio, prova una rabbia istintiva verso i calciatori multimilionari odierni, perché non li sente più parte di un vero, e quindi li sente altro da sé. Come se questi fossero stati definitivamente cacciati da una Camelot emotiva sempre aspirata, emettendo un irrimediabile certificato di morte. Questo lutto ha lasciato un vuoto incolmabile e disperante. Un giorno ci si è svegliati, e si è scoperto che il calcio della maglia si era dileguato, sostituito dal marchio di uno sponsor. Ed ecco, quindi, come nel momento del dolore attualmente in corso in Italia, diventa davvero inaccettabile qualsiasi cosa il sistema calcio voglia dire o fare. Ormai esso è vissuto, dai tifosi, come un estraneo troppo opulento e grasso, per poter tentare di dire qualcosa di sensato e intimo. Non è più il fratello carissimo del dopoguerra italiano.

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È rimasto solo Maxi Lopez a illudersi che “se in Italia succede quello successo in Francia (stop definitivo ai campionati) scoppia una guerra mondiale”. Il giocatore argentino non ha capito il momento, è evidente. Non ha compreso, unitamente a molti attori principali del calcio, come la distanza tra tifosi e calcio attuale si sia divaricata a tal punto, da assumere i contorni di una strada senza uscita da dove non è più possibile un ritorno. Non sto dicendo, ovviamente, che il calcio sia finito. Presto riprenderà le sue attività, come tutte le cose del mondo. Solo non è più autentico, e sarebbe meglio come i suoi protagonisti rimangano nelle loro torri d’avorio e la smettano di provare ad esercitare un ruolo che, in tutta evidenza, non hanno più. Se il calcio vuole recuperare le sue origini, e quindi la sua identità, deve battere altre strade. Forse la scuola può essere la realtà giusta da cui ripartire per far tornare lo spirito di fratellanza tra questo fantastico gioco e la gente. Forse la FIGC dovrebbe parlare con la politica, per vedere se ci sono le possibilità di organizzare dei tornei scolastici nelle scuole, fra gli ultimi baluardi dei valori comunitari. Bisogna riscoprire la filosofia e l’esistenzialismo, alla base di ogni attività umana di successo. “Il rimedio è uno solo, aprire gli occhi e rendersi conto che chiudendoli tutto resta, siamo solo noi che ce ne andiamo”, ha scritto Marcello Veneziani, ed è come un invito a non arrendersi alla voglia di resa. Se ancora la qualità della vita supera, ai nostri occhi, la quantità, allora non possiamo dimenticare come il calcio ha bisogno di tutti noi, ancora una volta. Occuparsi di esso, è come occuparsi del nostro giardino privato. Abbiamo il dovere di vivere e di riappropriarci di ciò che è nostro, e se qualcuno ritiene come in un momento in cui si piangono migliaia di morti ciò sia inopportuno, allora la situazione è più grave di come la sto osservando. Trecento spartani si predisposero a morire alle Termopili, perché alle leggi della loro città sentivano di dover obbedire. C’è ancora una legge al di fuori di noi alla quale sentiamo di dover obbedire? La qualità, e non la quantità, passa attraverso la risposta a questa domanda. Proviamoci.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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