Loquor

Report, Tuttosport e i procuratori

Torna Loquor l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

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“Provami che il denaro non

                                                                              può rendermi felice.”

Spike Milligan

John Steinbeck ha scritto come non bisogna avere paura di perdere e come la cosa più importante sia non avere fretta, dato “che le cose belle non scappano via”. Qualche anno più tardi, rispetto all’autore di capolavori come “Furore” e “Uomini e Topi”,  J.K Rowling scrive in una delle sue pagine della saga di “Harry Potter” che “arriva il momento in cui bisogna scegliere tra ciò che è facile e ciò che è giusto”. Sono riflessioni, queste di Steinbeck e Rowling,  un po’ stonate se confrontate con lo spaccato dell’inchiesta sui procuratori di calcio andata in onda su “Report” qualche giorno or sono. Di fronte al reportage della nota trasmissione di Rai3, la sensazione è quella di una letteratura persa nel vuoto di un sentimentalismo retorico, di righe scritte solamente perché le buone intenzioni scatenano empatia. E non è colpa della letteratura, è bene intendersi, se la società sorride di scherno di fronte al vano tentativo di dare all’esistenzialismo il giusto posto in un’ipotetica scala di valori. Il problema, uscito con tutta la sua chiarezza e violenza dal programma condotto da Sigfrido Ranucci, è la scomparsa di questa ipotetica scala di valori. Non esiste più il merito, non esiste più il talento e, soprattutto, non esiste più il rispetto della verità. Esistono solo i soldi e la malcelata cupidigia di averli, che è roba da far impallidire il “giovane ricco” evangelico incapace di lasciare tutti i suoi averi per seguire Gesù.

Mentre il giornalista di “Report” andava avanti con la sua inchiesta, un senso di squallore prendeva sempre di più alla gola fin giù allo stomaco. Un reticolo di “amicizie” tipo piovra pare essersi impossessato del gioco più seguito al mondo, con il forte sospetto, inoltre, che esso sia diventato una formidabile lavatrice per “pulire” i soldi provenienti dalla criminalità organizzata. Sospetto confermato da tutti gli intervistati, persino da una politica portoghese (Ana Martin Gomes), che hanno parlato tranquillamente della presenza finanziaria della criminalità nel calcio, ritenendolo come un fatto acquisito. Ed è proprio la tranquillità con cui si fanno certe affermazioni a lasciare sgomenti, come se non ci si rendesse veramente conto della loro gravità. Si può sentire Andrea Agnelli, nella conferenza stampa dell’addio alla Juventus di Fabio Paratici, sostenere quasi con noncuranza come un dirigente della Juventus debba essere pronto “ad affrontare situazioni extra calcistiche abbastanza importanti. Da scommessopoli con Bonucci, Pepe, e Conte, passando per i discorsi di mafia, arrivando al caso Suarez. Chi sta alla Juventus trova questo tipo di ostacoli lungo il percorso”. Lascio al lettore giudicare quanto sia surreale e scioccante questa dichiarazione del presidente della Juventus, che pare a volte non rendersi proprio conto del senso delle parole partorite dalla sua mente. Ma se si ritorna sull’inchiesta di “Report”, si capisce come i soldi e il potere facciano perdere ogni freno inibitorio verso la decenza. E allora si vedono soldi transitare per “paradisi fiscali”, e lo si accetta perché ormai “è così che le cose vanno”. Resta pure con le tue belle frasi tratte dalla letteratura, povero gonzo ancora capace di pensare come ci sia una separazione tra ciò che è giusto e ciò che non è giusto. Il mondo da tempo è finito tra le braccia delle sfumature, dove diventa sempre più difficile puntare il dito contro il corruttore della morale, dei costumi, e persino delle intenzioni. Lo scrittore, con le sue frasi fatte, è solo un fastidio, un venditore di sentimenti e aforismi desueti. Nel mondo reale, che non è più quello di Gabriel Garcia Marquez, esiste esclusivamente il credo “del dare e dell’avere”, e se si sopporta ancora il mito di un Gesù salito sulla croce per la salvezza del mondo, lo si deve al fatto come questa storia a volte possa servire al business. Non ci crede più nessuno all’utilità della sofferenza per avere giorni migliori, e la televisione, sciorinando continuamente pulsioni a desiderare nuove “Eldorado” da consumare, contribuisce a rimuovere ostacoli davanti al cinismo elevato a “realpolitik” accettabile per ognuno di noi. Socrate che beve la cicuta, pur potendo evitarlo, per essere coerente con le leggi della “Città”, oggi sarebbe scambiato per uno con evidenti problemi mentali o per un grande ingenuo inadatto alla vita e ai suoi uffici.

Chi ha capito tutto, invece, è chi compra giocatori sopravvalutandoli rispetto al loro reale valore di mercato, oppure chi paga sontuose commissioni a procuratori per operazioni di mercato a dir poco opache, oppure chi giudica leciti gli stipendi scandalosamente opulenti di tutte le componenti del calcio, sempre pronte a far notare con tono grave e dialettica condita di scioccanti dettagli come sia sulla soglia di un crollo finanziario dello sport più seguito al mondo. Cosa vuoi capisca Quinto Orazio Flacco, poeta nell’antica Roma, quando avverte come ci sia “una giusta misura nelle cose, che ci sono giusti confini al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta”. Ai signori del calcio contemporaneo quando gli si parla di giusti confini prima  ti guardano sgomento, poi, compreso di trovarsi davanti ad uno scrittore, cominciano a ridacchiare, poi subito dopo, per sicurezza e visto che hanno sentito parlare di confini, aprono una società anonima in Lussemburgo. Perché non si sa mai.

Un giorno forse qualcuno, finalmente, riuscirà a trovare un motivo ragionevole per cui ad alcuni stati si consentano politiche fiscali e di diritto societario pensate appositamente per criminali ed elusori del fisco. Ad oggi la politica, quando si parla di questi argomenti, riesce nell’impresa di dare spiegazioni quasi da comicità da avanspettacolo. Certo è difficile raggiungere l’umorismo lirico di Mario Giuffredi (procuratore) e Luca Parnasi (costruttore), che nell’inchiesta di “Report” giustificano ingenti versamenti di soldi a terzi come delle semplici regalie. “I soldi non sono nulla, servono solo a rendere l’uomo schiavo”, diceva Bob Marley, un altro intento a scrivere versi declinati in canzoni, quindi un altro perditempo e retorico scrittore di mondi inesistenti. Nel reale ci sono calciatori che, in cambio di “conio” da spendere, vendono persino la loro immagine a detersivi e pessime fiction. Bisogna pure continuare a “realizzare” qualcosa una volta appese le scarpe al chiodo, per buona pace per il cantastorie giamaicano, probabilmente in preda a qualche sostanza stupefacente nei suoi tentativi di provare a redimere il mondo. Ma se si prende in esame un’altra chicca di “Rasta Man” (“quando i discografici pensano prima al denaro che alla musica, la musica non avrà il valore che loro pensano abbia”), si può facilmente comprendere, analogicamente, cosa davvero la puntata di “Report” sul calcio alla fine abbia consegnato ai suoi sconsolati spettatori: si da un calcio ad un pallone solo per passare alla cassa. Ed in uno sport giunto fino a questo altissimo grado di cinismo, è quasi ovvio e funzionale aver messo tutti i suoi destini nelle mani dei procuratori. A cosa servono più le reti di “osservatori” e talent scout di un tempo per scovare giovani calciatori, se basta alzare il telefono e chiamare Mino Raiola o Jorge Mendes per risolvere tutti i problemi di allestimento di una rosa di una squadra. Su questo, dalle pagine di “Tuttosport”, arriva un’interessante inchiesta di Marco Bonetto (dovrebbero leggerla tutti, anche il presidente federale Gravina), dove si descrive perfettamente, portando ad esempio le lacunose strategie societarie del Torino (la società granata da tempo non ha più una sua rete di osservatori), cosa sia diventata la gestione del calcio mercato al tempo del regno incontrastato dei procuratori.

I bidoni venduti per buoni affari, con annesse ricche commissioni, hanno preso il posto del paziente lavoro di osservatori attenti, loro sì, a mettere al primo posto il valore della musica rispetto al denaro che gli gira intorno. Ecco, l’inchiesta di Marco Bonetto e la puntata di “Report” hanno avuto il pregio di mettere in evidenza come il calcio ormai non sia più in mano agli uomini di calcio, ma piuttosto a personaggi dalla morale paragonabile a quella del rapinatore di una banca, che viola con la forza il luogo dove tutti depositano il frutto delle loro fatiche e il prospetto dei loro sogni. Le due inchieste invocano implicitamente un intervento, politico e giudiziario, sullo scempio in corso nel mondo del calcio. “Non sono ricco, ma sono un pover’uomo con i soldi, che non è la stessa cosa”, ha scritto Gabriel Garcia Marquez, pensiero che fa il paio con “la vita non dovrebbe essere stampata su una banconota” di Clifford Odets. Ma costoro erano due scrittori, quindi meglio lasciarli perdere. Più utile è concentrarsi su Mino Raiola, che si definisce “un supercapitalista. Il supercapitalista vuole tutti ricchi. Ed io sono così”. Pura poesia contemporanea… opss, gli ho appena dato dello scrittore. Spero Raiola non mi quereli, non avete idea quanto tenga alla sua reputazione.

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