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Rino Gattuso: il ragazzo di Calabria

Rino Gattuso: il ragazzo di Calabria - immagine 1
Loquor / La rubrica di Anthony Weatherill: “La fortuna non dona mai; presta soltanto”.
Anthony Weatherill

Discussione di una tesi qualche anno fa, atto finale del corso di Laurea in Architettura dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. Nell’anfratto più appartato dell’aula magna, un uomo, che chiameremo convenzionalmente Rocco, sta assistendo all’evento con la stessa partecipazione di una fine di una vita, o del suo inizio. Indossa il vestito “buono”, quello riservato per le poche grandi occasioni. Una camicia stirata nei minimi particolari, dove ogni piega perfetta segna il passaggio di una cura a ricercare non la perizia, ma il segno di un affetto. Il bianco della camicia è così accecante e puro, da potersi usare tranquillamente come scandaglio in giornate particolarmente oscure. La cravatta ad ornare tutto quel bianco è armonia, e non consunta dal troppo uso; perché quella cravatta nera è stata e sarà usata solo per le grandi, poche, occasioni. La giacca è di un tessuto grezzo, forse troppo poco raffinato, ma è come portata addosso a connotargli un valore. Il bastone da passeggio e la coppola sono il segno di un tempo trascorso, e non proprio agevolmente. Il viso di Rocco è rugoso, dimostra più anni di quelli di una carta d’identità, che spesso non identifica niente, e appare come targa commemorativa delle intemperie e della fatica. Le mani sono piagate da un evidente principio di artrite, e sono mani usurate in modo inimmaginabile anche dalla più fervida delle immaginazioni. Sono le mani di chi per tutta la vita ha lavorato sui tralci di viti, legando i grappoli con del fil di ferro per prevenire le percosse dell’impeto dei venti. E’ il gradino più basso tra i lavoratori della terra, è uno dei gradini più duri e con un salario che nessun sindacato del mondo può controllare o contrattare. Bisogna solo sperare che alla fine di una giornata di lavoro ci sia, quel salario.

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Il giovane laureando è l’ultimo figlio di Rocco, l’unico a cui tutto quel fil di ferro legato ha consentito di studiare. Ecco perché, quando la qualifica di “dottore in architettura” viene sancita dal Rettore dell’università, quel bastone da passeggio comincia a tremare come colpito da una scossa tellurica, e sul quel volto rugoso scendono delle lacrime. Basterebbe questa scena per descrivere la Calabria da cui proviene Rino Gattuso, e forse basterebbe per definire una persona davvero speciale, in un mondo del calcio sovente immemore della propria fortuna. Ma l’attuale allenatore del Napoli ha dimostrato, nella sua ancora giovane esistenza, di saper riconoscere il valore della buona sorte, perché essa non è scontata come lo sono tutte le avversità della vita, che rimane in fondo una grande prova di coraggio. E lui, figlio di una terra dove molti padri lasciano per mesi le proprie famiglie all’inseguimento di pesanti lavori stagionali in Paesi stranieri, rispetta sempre il lavoro degli altri, perché conscio di essere un uomo fortunato. Non c’è conferenza stampa dove non conceda la possibilità dell’ultima domanda, anche quando il capo ufficio stampa ha appena dichiarato conclusa la sessione di domande. Gattuso nota sempre il giornalista speranzoso di potergli parlare e, con gesto risoluto, indica al funzionario del Napoli Calcio di voler rispondere a quell’ultima domanda. Qualunque essa sia. È un gesto non solo di un uomo gentile, ma di una persona devota alla propria fortuna.

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In un mondo contemporaneo dove tutti tendono a diventare l’isola dei propri esclusivi interessi, il tecnico di Corigliano Calabro decide di abbracciare la filosofia esistenziale di “Nessun Uomo è un’Isola” di John Donne, e quando si dimette dalla guida tecnica di un’Ofi Creta in pesante crisi finanziaria, è lui a provvedere almeno allo stipendio di dicembre agli ormai suoi ex giocatori, per consentirgli un Natale sereno. Gli uomini veri si guardano sempre attorno e sanno bene come un destino, per essere compiuto, debba necessariamente oltrepassare l’uscio di casa, che può essere l’inizio di un’accoglienza o di un isolamento egoistico. L’essersi tagliato lo stipendio per integrare la cassa integrazione da coronavirus di trenta dipendenti del Napoli, non è per Gattuso solo un ennesimo obolo da versare alla fortuna in segno di gratitudine, ma un ritorno a respirare linfa esistenziale calabra, l’ennesima manifestazione della civiltà greca dove ogni cosa dell’Occidente è iniziata. Nell’antica Grecia tutto è respiro affannoso nello scalare gli orizzonti dei limiti umani, che a volte, appunto, diventano limiti apparentemente invalicabili. E chi solca quegli orizzonti sa bene come il potente e magnifico Achille, uno dei più grandi guerrieri achei di ogni tempo, può essere tradito dalla debolezza del suo tallone. Cesare Pavese sosteneva come tutto sia antica Grecia in Calabria, e quindi ne discende come ogni calabrese sappia quanto la vita a volte possa essere più forte di qualsiasi sforzo o talento umano.

Da qui nasce il rispetto delle avversità, l’improvviso abbandono della buona sorte in tutti i nostri sforzi o tentativi. Quella di Rino Gattuso verso i dipendenti cassaintegrati del Napoli non è stato un gesto compassionevole, ma di uno immerso in quella cultura calabra mitologica di una ruota che gira negli umori di dei a volte capricciosi, che oggi colpiscono te e domani sicuramente colpiranno me. L’unica soluzione è farti salire un po’ sulla mia attuale buona sorte, contando sul fatto di farmi salire sulla tua quando ne avrò bisogno. È aiutarsi, è stare insieme. È la consapevolezza (Alex Zanardi docet) che “la vita ti dà e la vita ti toglie”, come il “Ringhio” nazionale ha ricordato alla fine della finale di Coppa Italia vinta contro la Juventus, trovando un modo tutto suo per ricordare l’amata sorella appena scomparsa. “I calabresi danno sempre l’anima, sono tutti combattenti. Gente che non si scorda da dove arriva”, ha dichiarato una volta in un’intervista, dove per l’ennesima volta sottolineava la sua sorpresa di aver fatto parte di un Milan pieno di super campioni, lui convinto da sempre di avere dei “piedi fucilati”, e non all’altezza della classe di un Maldini o di un Boban. Non è falsa modestia e non corrispondono così al vero i suoi supposti “piedi fucilati”, è semplicemente l’umiltà tenace di un “Figlio di Annibale”, dove non alberga la paura di combattere le potenti e abili legioni romane, ma dove si è perfettamente consci della loro superiorità. Essere “Figli di Annibale” è una delle principali condizioni dell’anima del Meridione d’Italia, da dove un tizio può partire adolescente da un piccolo e povero centro calabro e affrontare ogni umiliazione e avversità in terra d’Australia, per poi un giorno, nel suo primo discorso da neo eletto nel Senato australiano, alzarsi e fare le sue prime dichiarazioni, con orgoglio, in lingua italiana, in uno stupore generale ancora oggi ricordato nella terra dei canguri.

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I “Figli di Annibale” non mollano mai, nemmeno quando la squadra a cui per anni hai dato tutto per sorreggere il suo centrocampo foriero di tante vittorie, ti invita a lasciare la sua panchina perché non ti ritiene all’altezza delle sue ambizioni. Ma Gattuso sa bene che la vita dà e la vita prende, e quando arriva la chiamata del Napoli, smarritosi nella controversa guida tecnica di Carlo Ancelotti, a colui che fu toccato in sorte di essere campione del mondo sembra aver finalmente di aver toccato il cielo con un dito. Perché un meridionale doc avvertirà sempre Napoli come capitale di ogni suo destino e di ogni suo perché. Gattuso, nonostante gli evidenti rischi di accollarsi una stagione azzurra ormai rivolta verso un fallimento, non può proprio rifiutarsi di sedersi su quella panchina. Napoli è l’orgogliosa opposizione eterna al nord Italia, tutta racchiusa in una domanda quasi retorica posta da Maradona ad Emir Kusturica, mentre stavano girando uno splendido documentario sulla sua vita: “Sai cosa vuol dire per Napoli giocarsi lo scudetto con la Juventus? Sai cosa vuol dire per il Sud mettersi contro gli Agnelli”? Annibale non può smettere di sfidare Roma, perché sa che deve e può farlo.

Napoli è il cuore di quel meridione dove se un ragazzo un po’ magro e un po’ “storto” si mette in testa di diventare l’uomo più veloce del mondo, magari ci riesce anche, sfidando ogni concetto della logica e della fisica. Perché essere consci di essere “neri a metà”, come cantava il napoletano Pino Daniele, ti regala di provare ad essere come quel Jesse Owens che ricacciò in gola ad Adolf Hitler ogni strampalata teoria para genetica di mal presunta superiorità degli uomini con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Ci sono memorie e debiti destinati a non estinguersi, e quando sotto il cielo di Roma Gennaro Ivan Gattuso, detto “Ringhio”, ha portato il suo Napoli a vincere la Coppa Italia, mentre nelle vie della città partenopea ci si ubriacava di gioia, il suo atteggiamento è parso la rappresentazione di una frase detta in inglese nel corso di una sua furiosa conferenza stampa all’Ofi Creta: “Sometimes maybe good” (a volte forse va bene”). Il figlio di Annibale conosce Canne ma non è immemore di Zama, e ha rispetto del fatto come la vita abbia come mission il compito di superare ogni sfortuna. Rino Gattuso è quell’Italia certa del destino buono ma che si prepara a resistere con dignità ad ogni peggio. Per quanto mi riguarda, invitando De Laurentiis a tenerselo stretto a lungo, non posso che essergli grato del suo essere speciale. Anche a nome di Rocco e dei suoi innumerevoli lacci di fil di ferro.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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