“Il vero incanto sta nel
columnist
Riparte la Serie A
saper continuare”.
Ginevra Cardinal
Riparte la Serie A, e non si capisce quanto le persone ne siano felici o disincantate. Eh sì, è proprio il disincanto il pericolo maggiore al quale non solo il calcio, ma tutto il Paese sembra andare incontro. Qualcuno ha scritto come il disincanto sia da temere più della disperazione. Perché è una condizione dell’animo dove avviene un restringimento dello spirito, “una malattia delle arterie dell’intelligenza che a poco a poco si ostruiscono e non lasciano più passare la luce”. E’ difficile capire, in quest’epoca di mezzi di comunicazione esageratamente invasivi e preponderanti, quanto le persone siano autonome nel giudicare la realtà che li circonda. A sentirle, le persone, hanno tutti la certezza di ragionare con la propria testa; ma in realtà, ad osservare molte di loro attentamente, è facile rintracciare lo “scavo” operato dal martellamento continuo di concetti ripetuti alla stessa stregua di una parola d’ordine. Nella mancata elaborazione del lutto di un mondo che, secondo quasi tutta la stampa e accettato per un lungo periodo come verità da quasi tutta la totalità della popolazione italiana, non è più percepito sicuro come prima dell’avvento del Covid-19, non si colgono ancora segnali di un risveglio d’interesse all’incanto, allo sperare in qualcosa che probabilmente non si avrà mai, ma che vale perseguire ad ogni costo. E questo perché ancora i mezzi di comunicazione non hanno deciso quando e in che misura si potrà tornare a sperare nelle sorprese dell’ignoto.
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Per adesso continua a prevalere il dogma dello stare fermi in “memoria di”. Gabriele Gravina, mentre tentava disperatamente di riavviare la pratica calcio, non si è reso conto di trovarsi di fronte ad una moltitudine di persone avviatesi con decisione nella via del disincanto. Non era più importante patire e gioire per una squadra, bensì solo concentrarsi sulla paura della propria morte, o della dipartita di qualche parente o caro amico. E la cosa, confesso, più mi passava davanti, più mi faceva sorridere pensando ad un paradosso: per anni la società postmoderna occidentale aveva rimosso il concetto della morte, a cui era vietato inconsciamente, o consciamente, qualsiasi tipo di riferimento. La morte, come concetto, era vista come qualcosa di troppo assoluto da una società occidentale, fondata sempre più sul diritto a godere dell’epicureismo, avviatesi all’esaltazione di un inconscio desiderio dell’immortalità. Era il tentativo affannoso di Gilgamesh, re di Uruk ed eroe assoluto della mitologia della Mesopotamia, di scoprirsi eterno. Agli albori della modernità Friedrick Nietzsche dichiara che “Dio è morto”, ucciso proprio da noi uomini, e aprendo così la strada all’abbandono della morale comune per concentrarsi sui propri valori. Il filosofo tedesco procede con decisione a sostituire il“Tu devi” con l’"Io voglio”, tracciando il sentiero di un nichilismo fedele compagno dell’umanità per tutto il novecento fino ai giorni nostri.
Fino agli strani giorni del Covid-19, in cui improvvisamente le persone postmoderne riscoprono quel qualcosa per generazioni mentalmente rimosso: nella vita, per quanto nella razionalità moderna e postmoderna non lo si è voluto ammettere per lungo tempo, si muore. La società del terzo millennio a vocazione planetaria si scopre fragile, o almeno così la grande stampa sancisce a cadenze quotidiane da quattro mesi, e si impone di distaccarsi dal suo stesso divenire naturale. Non si viene più al mondo per vivere, ma per cercare a tutti i costi di non morire, divenuta questione fondamentale ultima. È il trionfo del disincanto, è aver fatto scendere Gesù Cristo dalla croce, perché accettare di morire a 33 anni inchiodato su una croce ora appare inaccettabile persino di fronte all’incanto della Resurrezione. Nel nome del “Primum vivere deinde philosophari” (prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia) si chiudono persino le chiese, e la gente si confina in casa pensando così di porsi in modo attivo di fronte alla fine del mondo. Del suo mondo. “Niente sarà più come prima” è la nuova parola d’ordine del pensiero “mainstream”, creando, senza che la gente se ne sia edotta, il presupposto etico/morale per cancellare quel “prima” per far passare quel “dopo” da tempo auspicato dai padroni del mondo. È un “dopo” prefigurato con più mezzi di controllo sociale, giustificati e accettati per la nostra sicurezza, per far tornare la voglia di vivere il futuro senza più la paura della morte a fare da capolino.
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Come si può pensare al calcio di fronte ad un cambiamento di “Era” simile? In un mondo ridotto ad assembramento persino quando tre persone si fermano per strada a parlare e dove nelle scuole sta per irrompere il plexiglass a interrompere i bisbigli furtivi tra i banchi durante le lezioni, risulta davvero difficile concentrarsi su una cosa dove la passione dovrebbe essere il prerequisito necessario. Ma non c’è passione senza il fertilizzante dell’incanto, e allora perché rimpiangere il calcio? Meglio affermare indifferenza verso di esso. Nel nuovo mondo del “dopo” possiamo farne a meno, come possiamo fare a meno di concerti, di visite ai musei, dell’affascinate “buio” delle sale cinematografiche di ogni tempo. E che i fratelli Lumiere andassero beatamente pure a quel paese. “Dobbiamo rispetto alla memoria dei morti”, è stato il mantra ossessivo di questi ultimi mesi, ogni qual volta qualcuno timidamente ha provato a far notare come l’immobilismo casalingo stava forse “suicidando” migliaia di anni di attività umane. A ricordare come l’uomo sia stato pensato per muoversi e per rischiare di farsi male, come le peripezie omeriche di Ulisse sottolineano, si era e si è passibili di cinismo e di vergogna. No, in questo contesto non si può tornare del buio di quelle sale cinematografiche che personalmente non riesco a dimenticare, e men che mai si può tornare a parlare di goal e rigori non dati. O almeno così un coro da tragedia greca pare voler convincerci dall’apertura degli occhi del mattino all’abbandonarsi al sonno nel desio.
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A dare speranza viene in soccorso il sesto libro dell’Eneide di Virgilio, dove le anime dei “Campi Elisi”, prima di reincarnarsi, bevono l’acqua dell’oblio del fiume “Lete”, per rimuovere i ricordi di vite passate. Di questo fiume ne parlano anche Platone nella “Repubblica” e Dante Alighieri nella “Divina Commedia”, a sottolineare la necessità di elaborazione di qualsiasi lutto e di qualsiasi colpa. La vita è andare avanti come sempre, per dare un senso ad ogni avvenimento accaduto prima di ogni contemporaneità. È stato significativo il simpatico caos messo in scena allo “Stadio Olimpico” di Roma nel corso della finale di “Coppa Italia”. La squadra arbitrale, prima del fischio d’inizio, ad incitarsi toccandosi con i gomiti (nuovo saluto anti Covid), i capitani dimentichi dei gomiti salutarsi battendosi il “cinque” come si faceva prima che il mondo fosse sottoposto al supposto cambiamento, i giocatori del Napoli abbracciarsi e assembrarsi intorno ad allenatore e presidente per festeggiare la vittoria, i giocatori della Juventus prendersi da soli le medaglie spettanti agli sconfitti, De Laurentiis preso da decine di mani senza guanti protettivi e lanciato ripetutamente in aria dai suoi giocatori ebbri di gioia. Anche quando si prova a reprimerla, la vita dalle parti dell’occidente torna sempre, fortunatamente, a bussare prepotente.
È il lascito della ricerca dell’incanto della filosofia greca, del cristianesimo, dell’idealismo tedesco, e di tutta quella ricerca di senso apparentemente contraddittoria di cui è caratterizzata la storia della cultura occidentale. Vedere la gente di Napoli festeggiare la Coppa Italia nei luoghi meravigliosi della città partenopea e Charles Leclerc tornare a guidare la sua “SF1000” Ferrari per le strade di Maranello, è stato come un grido dell’Italia di volersi riappropriare della vita per lunghi mesi scippata. Gli antichi greci davano molta importanza allo sport, perché, secondo loro, i veri uomini sono anche quelli che si dedicano allo sport e sanno vincere le gare. Onorare e rispettare tutti quelli che oggi non ci sono più, significa riprendere il filo da dove loro lo hanno lasciato, non per dimenticarli, ma per continuare le loro opere. Perché tutti quelli che ci hanno lasciato avevano in fondo un solo scopo intrinseco, ovvero quello di regalare ai posteri un nuovo inizio. Torino-Parma, la prima partita della ripresa della Serie A, è semplicemente e magnificamente questo: un nuovo inizio. Cosa ci aspetta il giorno dopo questa ripresa non lo sappiamo, ma è qui il suo fascino. Nel film “Salvate il Soldato Ryan”, un nugolo di soldati muore per riportare in salvo dalla madre l’ultimo dei cinque fratelli Ryan rimasti in vita. “Meritatelo” è l’ultima parola rivolta da un Tom Hanks morente allo scampato Matt Damon/soldato Ryan. Proviamo a meritare questo nuovo inizio. Insieme.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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