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Loquor

Roma Torino. Stadio e felicità

Carmelo Pennisi

Torna Loquor, la rubrica di Carmelo Pennisi: sotto i riflettori una partita vissuta allo stadio, quello di Roma, tra giallorossi e Torino

“Pensavo ogni poesia

                                                                                        fosse l’ultima”.

Ezra Pound

 

Edoardo Galeano argutamente ha osservato il senso di insuperabile vuoto e di insuperabile silenzio di uno stadio senza nessuno a riempirlo. Ho ripensato a questa considerazione del grande giornalista e scrittore uruguaiano quando domenica alle 18 ero tra i 46.000 tifosi dello “Stadio Olimpico” di Roma, inebriato da una di quelle atmosfere che ti raccontano perché un giorno hai deciso di perderti nelle storie di un folle gioco come il calcio. Ero circondato da una  moltitudine di tifosi romanisti, inconsapevolmente incuranti del mio patire per la causa Granata, che a cicli regolari insultavano e sfottevano, adeguatamente ricambiati, la piccola porzione di eroici tifosi del Toro convenuti a Roma per non far dimenticare alla loro squadra per chi e cosa stessero giocando la partita. Essere sulle gradinate di uno stadio dopo tanto tempo mi ha fatto rimpiangere ancora una volta di non abitare a Torino (città da me amata moltissimo), di non avere avuto almeno una volta nella mia vita la possibilità di abbonarmi a quella che non è semplicemente la squadra per cui tifo, ma un amore infinito non spiegabile e un luogo dell’anima che so bene esistere, ma che ancora sto cercando. Nel turbinio di emozioni avvolgenti, in quel verde accecante del prato di gioco, nelle parole di tutti gli astanti (ivi compresi due amici tifosi Granata rei di avermi catapultato in questa piacevole esperienza), ho cominciato a capire ancora più chiaramente cosa ha fatto la televisione a tutti noi in questi ultimi anni: ci ha ridotti a dei naufraghi dell’esistere.

La tv, come la più classica delle “Sirene” di omerica memoria, con il passare del tempo ci ha stordito e fatto calare delle curiose cateratte sugli occhi, rendendoci finanche inconsapevoli di non avere più la possibilità di “vedere” uno sport che tanto amiamo, una delle poche tracce ancora a legarci a molti nostri avi. A guardarlo dall’alto uno stadio può sembrare un immenso buco, un antro incomprensibile in cui pare impossibile trovarci un filo logico, un motivo valido perché qualcuno un giorno abbia deciso di scavarlo. E se lo guardi come un semplice buco, se ti convincono come dentro ci sia un nulla che solo delle telecamere e una sapiente regia possono riempire di qualche contenuto, allora hai appena imboccato la strada verso la mistificazione della bellezza. No, a casa proprio non si può nemmeno percepire cosa sia l’attesa di un ingresso in campo delle squadre, e non si possono sentire i respiri diventati improvvisamente muti per l’emozione. A casa non ci sono compagni di avventura con la tua stessa voglia di prenderti una pausa dal mondo, per poi rientrare nel mondo con più certezze. Quel rosario di sedili colorati occupati da persone impossibili da capire se non si è mai veramente amato almeno una volta nella vita, sono una delle vie per assumere la consapevolezza di non essere venuti al mondo per stare da soli. “Noi siamo la Roma!”, è l’urlo dell’Olimpico quando i giallorossi entrano in campo per il riscaldamento, e sai già come quell’urlo non lo dimenticherai mai, simile a quel brivido di felicità provato ogni qual volta si pensa alla vita come ad una occasione irripetibile, conosciuto sin dagli albori attraverso lo shock emotivo nel momento in cui si è abbandonato il ventre di una madre per irrompere nel mondo.

Quel pianto neonatale è paura e voglia subito di provarci, segno del bisogno di dover sempre iniziare qualcosa, anelito innato della natura umana. Confinarci in un salotto di casa non è iniziare, è aver finito in modo inglorioso un inizio, condannando la passione di tutti quelli che ci hanno preceduto nell’amare la nostra squadra alla “damnatio memoriae”. Cancellare ogni memoria per sempre, questo è il tentativo inscenato ogni qual volta decidiamo come non valga la pena uscire di casa per andare a riempire quel vuoto nato per essere sconfitto dall’amore dei tifosi. Uno stadio pieno, e quello di Roma Torino lo è stato, interrompe la lunga cerimonia funebre officiata da un “led” o da un “oled”, e riconcilia l’essenza con la presenza. Si sono avuti, in questi ultimi anni, molti motivi per decidere  di non essere presenti: un presidente sgradito, uno stadio non molto confortevole, un apparecchio tv seducente, ecc… ma quell’assenza dallo stadio, nel suo significato più profondo, è il segnale sintomatico di una società italiana piegata, inspiegabilmente, ad arretrare dalla prima linea della realtà, decisa tenacemente a rinchiudersi tra le mura domestiche o in spazi sempre più angusti e rigidamente controllati. Lo stadio è un ambiente troppo anarchico, per poter essere amato da un contesto sociale diventato sempre più conformista e sempre più, attraverso un incomprensibile consenso, dal carattere etero diretto. Sembra non importare più la perdita di contatto progressivo con il passato, il cui ricordo si sta affievolendo anche per lo sbiadirsi di tutti i principali punti di riferimento. L’Italia che sta perdendo la presa della sua identità non solo non si meraviglia della mancanza di bambini a giocare a pallone per strada (quanta tristezza avrebbe causato a Borges questa considerazione), ma proprio non sta prendendo atto di questa mancanza, come fosse completamente disinteressata all’avvenimento. Il freddo comincia a farsi sentire e la pioggia a cadere fitta, proprio mentre la tua squadra ha preso il dominio del gioco e senti la paura, figlia del rispetto montante, dei tifosi della squadra avversaria.

“Stanno giocando solo loro”, senti poco dietro di te, e subito una voce qualche posto a fianco confermare: “è vero”. Non sai perché, almeno non fino in fondo, ma quella paura mista a rispetto ti provoca un impercettibile filo di piacere che diventa esplosione non appena dalla mente e dal corpo giunge al cuore. Nella tua mente ringrazi gli amici che ti hanno convinto ad essere lì in quel momento e non nella retrovia di un salone così anonimo, da essere sembrato un giorno un tocco di originalità. Siamo nel tempo in cui l’Ikea ha reso conforme ad un mainstream del gusto persino la scelta di un tavolo o di un divano, e la libertà donata dallo stadio oggi fa paura. Li vedi i finti intellettuali posseduti dal tic della superiorità ostentata (basta un cretino a molestare una giornalista per scatenarli), non vedono l’ora di dipingere come tempo vacuo e a tratti bestiale quello dedicato allo stadio. Snobbare il calcio e classificarlo come un epiteto risalente  al mondo delle caverne, è uno dei giochini preferiti dei maitre a penser: I luoghi di libertà sono sempre stati mal sopportati dalle elite, pragmaticamente protesi verso una società costituita “a piramide”, archetipo geometrico difficile da imporre dentro uno stadio. I pensieri e le emozioni scorrono veloci come la partita; ci sono molti bambini presenti un po’ in tutti i settori delle gradinate, e non mancano nemmeno quelli della “Generazione Z”.

 

È un destino comune quello di essere tutti lì in quel momento, e si ha la certezza come la presenza dei tifosi debba essere mancata ai giocatori e, soprattutto, allo spirito del gioco. Quando Paolo Scaroni, presidente del Milan e uno di quelli nati appositamente per assecondare la filosofia della piramide, afferma come  “San Siro” sia “iconico perché ci sono Inter e Milan, e conseguentemente l’iconicità continuerà nel nuovo stadio”, capisci come il marketing, braccio armato a contratto, volutamente e provocatoriamente ancora una volta dimentica i tifosi. Sono ladri di memoria e di cultura questi camerlenghi del vertice piramidale, pronti a liquidare con noncuranza come “nostalgici e romantici” le persone (tifosi) obbligate a cambiare idea quando vedranno il fantasmagorico progetto del nuovo stadio di Milano. Manca poco alla fine della partita ed Andrea Belotti è finito per terra, dolorante come non mai. Deve uscire sostenuto dai suoi massaggiatori e lentamente si avvia verso la sua panchina. Lo sguardo del “Gallo” è rivolto verso il basso e le smorfie di dolore sono ripetute e sempre uguali: il male provato deve essere tanto (si saprà essere stato vittima di un brutto stiramento muscolare). La sensazione è che il giocatore conti persino i passi mentre alla sua destra scorre la “Curva Nord” dell’Olimpico. Accanto alla “Nord” è accampato il piccolo drappello dei tifosi del Toro, ormai distratto dalle vicende della partita perché l’attenzione è tutta per il “Capitano”,  applaudito così forte che quasi va a coprire il tifo giallorosso. Giunto sotto il drappello color granata, Andrea Belotti ha come uno scatto, il dolore pare abbandonarlo per un attimo e alza lo sguardo verso lo spicchio di tribuna che lo sta applaudendo. Quello è il momento in cui il protagonista di tante battaglie Granata alza la mano e saluta per ricambiare tutto l’affetto ricevuto.

Quello è il momento in cui si cristallizza per sempre la vera sostanza dell’amore tra un giocatore e la sua gente. In tv questo tempo trascorso all’interno della partita si sarebbe perso, e avrebbe portato ancora una volta il rapporto tra Belotti e i tifosi del Toro verso supposizioni dalla natura intrinsecamente fallaci. Sarà triste tornare a vedere una partita davanti ad uno schermo televisivo, ma è aver accettato questa tristezza come fenomeno inderogabile il vero attacco portato al cuore del calcio. Tutto il resto, come si recitava nel noto film, sono solo “chiacchiere e distintivo”. Sono tormentato dall’infinito dei cross tirati dal fondo di un campo…

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.