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Se i bambini del Toro piangono

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Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Non mi induriscono, non mi stancano  non mi feriscono” Charles Dickens

Non potrò mai dimenticare quando David Dein, figura storica del calcio inglese della “Premier League”, e per anni comproprietario e Vice Presidente dell’Arsenal, mi raccontò con gli occhi di un bambino entusiasta il giorno in cui riuscì a diventare parte importante della proprietà dei “Gunners”, un sogno coltivato da sempre e che lo aveva spinto ad avere successo come uomo d’affari proprio per avere i soldi necessari per realizzarlo. Questo racconto mi ritorna sempre in mente ogni qual volta penso al mondo del calcio e al suo essere una attività imprenditoriale atipica, fatta di utili, necessari per il buon andamento di ogni impresa, ma anche e soprattutto di passione. “Distribuire il gioco, questo è il calcio”, scrive Albert Camus nel suo romanzo capolavoro “La Peste”, ed in queste parole del Premio Nobel francese c’è tutta la verità contenuta in questo fantastico sport, dove la distribuzione del gioco è sinonimo di felicità e di memoria. Noi, i tifosi di calcio, siamo assetati di gioia, di momenti da poter condividere accompagnati dalla speranza di qualcosa, e non necessariamente di una vittoria. Per David Dein era quella di riportare la sua squadra del cuore a rivincere un campionato, senza mai staccare comunque l’occhio dagli utili del club, perché una cosa ho dimenticato di dire: per anni la squadra dell’Arsenale di Londra è stato il suo unico business.

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Non dico che per il suo sostentamento le cose dalle parti dell’Highbury Stadium dovessero andare per forza bene, ma la verità non è poi così molto lontana da ciò. Per me che sono tifoso del Toro, e purtroppo(o per fortuna) non nella condizione di Dein di essere comproprietario della mia squadra del cuore, le ambizioni sono un po’ più sfumate o modiche, magari mi accontenterei di vedere qualche derby con la Juventus più battagliero e con una atmosfera da partita diversa da tutte le altre. Sono tempi grami per noi Granata, tempi in cui non dico ad una “corsa” per provare a vincere il campionato, ma nemmeno a quella di una qualificazione alla “Champions” possiamo realisticamente aspirare. Soggiogato dallo stoicismo e dal senso tragico della Grecia classica, chiedo aiuto a Esiodo e cerco di farmi accettare dentro l’anima quanto “la metà spesso vale più del tutto”. E quindi, come dicevo, parto dal senso del “Granatismo” più puro e ogni inizio di campionato dal 2005 a oggi, ovvero da quando ho subito capito che dal fallimento “Ciminelliano” non era scaturito un Donald Trump con stimmate Granata, ma solo un tifoso milanista con ascendenze materne da Toro e inebriato dalla parola “parsimonia” elevato a nuovo “Nirvana” come un Siddartha Gautuma 2.0., mi auguro di rivedere qualcosa a ricordarmi lo spirito di un Paolo Pulici o di un Giorgio Ferrini, capace di far ritornare il “Filadelfia” il covo di dissidenti bianconeri che nel 1906 diede vita ad una delle storie più suggestive della storia del calcio mondiale e, come dicevo, di dare veri segni di dissidenza due volte l’anno quando si scende in campo contro la “Vecchia Signora”. Mi pare una speranza ragionevole e assolutamente non pretenziosa, diciamo il minimo sindacale per avere una ragione valida per mantente fermo il tifo per il Toro.

“Gli adulti si consumano di rabbia e i bambini del Toro piangono perché sono bambini del Toro”, ha scritto Marco Bonetto su “Tuttosport” pochi giorni or sono, con una malinconia “dickensiana” sottile a indicare non come il Toro sia finito, ma come una magia lentamente stia scomparendo nella melma del nuovo calcio contemporaneo totalmente privo di identità e a volte finanche di decenza. Citavo David Dein perché trattasi di un archetipo di dirigente calcistico anni luce lontano da Urbano Cairo, che ogni volta pare uno capitato per caso dalle parti dello storytelling Granata. Le contestazioni e le esperienze passate sembrano continuare non servire a nulla, il patron del Toro insiste i soliti clichè snervanti forse partoriti nella pubblicità, genesi della sua biografia professionale. Coltiva slogan a cui nessun può credere, e fino all’ultimo giorno prima dell’annuncio della sua cessione, vorrebbe farti credere ad una possibilità di permanenza di Alessandro Buongiorno  nel luogo dal quale non se ne sarebbe mai dovuto andare. “Parlerò con il ragazzo, e vediamo cosa pensa”, diceva l’editore alessandrino fino a ventiquattro ore prima della sua dipartita verso Napoli. Temo ci abbia confuso, noi tifosi del Toro, come anime passive davanti alle pause pubblicitarie della sua tv. Siamo ad una sorta di circonvenzione di incapace, o almeno così baleniamo nella mente di Cairo, e ritiene come noi tifosi non si meriti nemmeno la verità, o un confronto da uomo a uomo. Si è trattati da infanti problematici e complessati, ai quali la verità non si può dire mai in maniera diretta e con risvolti traumatici, ma con un accompagnamento lento di presa d’atto che no, anche quest’anno Babbo Natale non porterà il regalo tanto desiderato. Come ogni mese di luglio siamo sospesi nell’ignoto, speranzosi di essere noi a essere quelli fortunati a pescare i jolly giusti alla Riccardo Calafiori, Joshua Zirkzee, Lewis Ferguson, e portare a casa con pochi soldi dei giocatori che almeno per un anno possano regalarti la mano da poker vincente. Non che Joey Saputo, Presidente del Bologna, abbia la passione “Gunners” di David Dein per il Bologna, sia chiaro, ma forse è riuscito a creare un ambiente adatto affinché nel capoluogo emiliano alla passione si possa sopperire con la professionalità.

Non solo con il cuore si possono raggiungere risultati e obiettivi. Continuano a ripetere la storia di un calcio cambiato, oramai lontano, troppo lontano, dai racconti di Borges, Saramago, Soriano; siamo alla sua versione cinica e nemmeno finanziaria, ma, perdonate la brutalità, da spartizione della torta. I praticoni( i colti direbbero pragmatici), quelli del fare tesi a farti capire come abbiano capito tutto del saper vivere, sostengono la filosofia dello “show must go one”, che non si possono fermare i cambiamenti imposti dal tempo. “I presidenti alla David Dein non esistono più, fattene una ragione”, e in effetti siamo nell’epoca di sceicchi e fondi di investimento che, con la complicità di Fifa e Uefa, hanno ridotto il gioco più seguito e trasversalmente sociale del mondo in una occasione esclusivamente di fatturati da soddisfare. D’altronde quanto tempo è passato da quando Pierre de Coubertein aspirava per i suoi “Giochi Olimpici Moderni” al dilettantismo e all’importante è partecipare, e tra pochi giorni si tornerà in Francia per celebrare l’evento sportivo più “fatturato” del pianeta. E’ stato Primo Nebiolo, l’indimenticabile o dimenticabile(fate voi) dominus dell’atletica leggera mondiale, a traghettare la disciplina sportiva regina delle Olimpiadi nella sua attuale versione “show” macina soldi a più non posso. Gente come Urbano Cairo o Claudio Lotito, perennemente sotto contestazione dei tifosi(“Io tanto non me ne vado”, è stata l’ultima bellicosa dichiarazione del Presidente della Lazio), si guardano attorno e vedono come nemmeno con il ritorno del “Messia” probabilmente si  riuscirebbe a cacciare i mercanti dal tempio, considerato che il tempio sta ancora in piedi solo per le esigenze dei mercanti. L’altro giorno mi è capitato di fare un paragone tra il Toro e i paesaggi social/letterari di Charles Dickens, dove in una Londra martoriata dal capitalismo industriale, persino dei sogni degli infanti si rimane indifferenti.

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“C’è una saggezza della testa, e una saggezza del cuore”, scrive Dickens, e mentre quella della testa di Urbano Cairo forse si è capita, è quella del cuore a sfuggire. Ogni volta che lo sento parlare o leggo le sue interviste, cerco di capire se c’è almeno una traccia , anche piccola, della passione di Davide Dein, ma non la trovo. Sarò troppo pretenzioso? Non saprei dire, ma posso dire che un Toro come quello attuale non serve a nessuno e non perché non vinca, ma per incapacità manifesta di esprimere il dna della sua storia. Sconsolato, affranto dall’impossibilità di poter incidere in qualche modo, incapace di trovare una ragione empirica per non mandare al diavolo tutto, improvvisamente mi vengono in soccorso tutte le conversazioni, le considerazioni, gli aforismi più belli e anche quelli meno belli, e le storie di tutti i fratelli e le sorelle Granata conosciuti/e, e allora sbuffo e sorrido pensando a Cairo, ma non è rassegnazione. Mi viene ancora una volta in soccorso il genio di Dickens: “l’amavo contro ogni possibile ragione, promessa, pace, speranza, felicità… contro ogni possibile scoraggiamento”. Questo per me è il Toro, e non sarà l’indifferenza di un presidente a farmi dimenticare quanto l’amo. Come ogni luglio sono ancora qui, e finche vivrò, a costo di essere giudicato uno incapace di intendere e di volere, io spero.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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