“Coloro che sanno rallegrarsi
Loquor
Sotto il cielo di Londra
con noi sono i migliori”.
Friedrich Nietzsche
Norman Mailer consegnò alla storia una definizione abbastanza veritiera della persona geniale, collocandola sempre in equilibrio sul bordo dell’impossibile. E’ quasi utopico resistere al fascino dell’impossibile, visto come esso sia quasi sempre collegato al vero motore del divenire umano, ovvero l’ambizione. La storia, quella con la S maiuscola, non si è mai costruita con le rendite di posizione, e persino nel celebre “Alice nel Paese delle Meraviglie” la Regina di Cuori esortava Alice ad esercitarsi almeno mezzora al giorno a credere alle cose impossibili, perché è la pratica frequente a dare alle nostre visioni un qualche senso della realtà. Però, e lo dico con tutto il rispetto per il personaggio inventato da Lewis Carroll, c’è un problema che ha “invaso” questo inizio del terzo millennio, ed è la convinzione diffusa (non saprei dire onestamente in che percentuale) di essere tutti persone capaci di catturare il senso vero della realtà, e di essere pronti a trasformarla. Perché è esattamente questo che le persone geniali fanno. Il genio non è un qualcosa che può venire fuori dal nulla, anzi deve avere una storia a precederlo e a prepararlo, insito come è nel mistero del codice genetico di un popolo. E’ difficile, tanto per fare un esempio, possa venire fuori un genio del calcio dalla Nuova Zelanda, dove il gioco più seguito al mondo non ha mai avuto l’audience generalizzato da quelle parti riservato da sempre alla vela e al rugby. Nel codice genetico dei Kiwi c’è l’insularità che li costringe costantemente a vedere il mare come una sfida da vincere, ed ecco il motivo di una fioritura di skipper leggendari come Dean Barker o Russel Coutts. E che dire del mitico Sir Peter Blake, vittorioso in due “America’ Cup”, ucciso da dei pirati nel nord del Brasile, proprio mentre era in barca nel corso di una spedizione scientifica. L’addio al mondo desiderato da ogni attore: mentre calca le tavole del palcoscenico, mentre è più vivo che mai. Nessuno, in Nuova Zelanda, si sognerebbe di dire in modo snobistico, dopo una vittoria nell’Americas Cup, che si sta parlando solo di vela. Non verrebbe mai in mente ad un intellettuale neozelandese di vergare articoli o girare video da postare sulla rete su quanto sia troppo ridicolo ed esageratamente retorico paragonare un trionfo velistico alla storia o allo stato dell’arte del Paese.
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Questo perché la vela è uno dei modi in cui la Nuova Zelanda racconta perfettamente se stessa e la sua storia, e non può in nessun modo essere retrocessa a questione banale di un sollazzo da tempo libero. Quando Jonah Lomu, forse il più grande giocatore “All Black” mai esistito, nel 2015 lascia il mondo dei vivi per consegnarsi definitivamente alla leggenda, in tutte le scuole neozelandesi gli studenti sentono il bisogno di ricordarlo con una “Haka”, la danza ancestrale maori che la squadra di rugby più forte del mondo sente il bisogno di mettere in scena prima di ogni sua partita. Giocatori come Jonah Lomu, Richie McCaw, Dan Carter potevano venir fuori solo in un luogo dove uno sport, il rugby, è la rappresentazione dell’incontro tra il nuovo mondo e la nostalgia dell’antica patria dove il rugby è nato e si è diffuso tra prestigiose università e scuole superiori di antico lignaggio identitario. Il genio rugbistico Kiwi è racchiuso tutto in questa storia, fatta di cose nobili e meno nobili, ma dove incontestabilmente risiede l’anima di un popolo. Nessuna meraviglia, quindi, se il personale aeroportuale di Auckland accoglie l’aereo che ha riportato in patria i freschi campioni del mondo “All Blacks” con una “Haka” in mezzo alla pista dell’aeroporto. Non c’è il classico intellettuale, o presunto tale, a sottolineare come il rugby non sia proprio tutto questo sport nobile, e che hanno rotto con questa palla ovale a cui si affidano molti significati dell’esistenzialismo neozelandese. Vincono una “America’s Cup” o un campionato del mondo di rugby e, semplicemente, si ritrovano a festeggiare l’essenza del loro genio, senza avere il bisogno di mettersi a parlare di altri sport più belli e più civili come la Pallacorda, la Pallavolo o il Basket. Ma quella è, appunto, la Nuova Zelanda, terra dove non alberga il fastidio di riconoscere in alcune cose tratti caratteristici del loro genio. In Italia, invece, la musica cambia, e ogni qual volta la nazionale di calcio vince spuntano come funghi commentatori altezzosi protesi, non senza qualche affanno, a sottolineare come sia ridicolo ricordarsi di essere italiani solo in occasione delle partite di calcio. Sono ben altre le cose in cui bisognerebbe farlo, e qualcuno si è spinto persino a scrivere o a dire la necessità di mostrare la nostra italianità al momento di pagare le tasse, cercando di non evaderle e mostrando così in questo modo nobile l’amore per la nostra terra. Ci sarebbe da ridere, se non si stesse parlando di cose serie e se non fossimo, in questa disgraziata contemporaneità italica, immersi in una crisi d’identità senza precedenti nella nostra storia. Tornando alle persone geniali, c’è da dire come queste non perderebbero il loro tempo a discettare su quanto sia retorico e sciocco provare sentimento patrio verso una squadra di calcio. le persone geniali, quelle vere e non presunte, ragionerebbero sul perché la gente ha bisogno di esternare questo sentimento, e da dove arriva l’emozione e la voglia di cantare un inno nazionale insieme ad undici ragazzi pronti a dare “battaglia”, in nome della terra dei loro padri, correndo dietro ad un pallone.
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Le persone geniali approfitterebbero dell’occasione degli azzurri del calcio, per tornare in equilibrio sulla vertigine dell’impossibile, provando a raccontarci seriamente perché il calcio per gli italiani non potrà mai essere esclusivamente un gioco, e perché non vedremo mai masse di discendenti della lingua di Dante Alighieri ritrovarsi a Piazza del Popolo a Roma a soffrire e a gioire davanti ad un megaschermo per la nostra rappresentativa nazionale di Pallavolo. Il calcio è resilienza, è fatica, è intuito, ed è, soprattutto, attesa. E’ tanta ed infinita attesa, ed è rappresentazione del valore di saper vivere bene questa attesa. Il calcio gli italiani lo interpretano con l’essenza della loro storia, dove la costante è saper aspirare a tempi migliori, con una sequela di sacrifici inenarrabili, dove si troverà il momento inebriante regalato dal lampo di bellezza. Il calcio è lo sport dove la tattica può trionfare su tutto, perché saper vincere è un’arte che richiede pazienza e saper gettare via la tentazione della vanità. Vincere è riconoscere il momento giusto di andare via lontano da un’area di rigore, come gli “Sposi Promessi” manzoniani, per poi ritornavi ad assestare il colpo giusto frutto di un percorso resilienza. Il calcio, per gli italiani, non è dare battaglia per un’ansia di dominio (non siamo tedeschi), ma è urlare al mondo il nostro saper resistere come pochi ad ogni tipo di avversità. E se anche ci hanno fatto unire molto tardi, si era patria e nazione molto prima che i Savoia compissero l’impresa. L’italiano, nel calcio, si esalta nella sofferenza perché nei nostri geni è situato il ricordo di generazioni di contadini che andavano a lavorare nei campi in ogni condizione e in ogni clima. E quando non erano campi agricoli erano il buio di miniere situate in ogni sorta di profondità. Ma la fatica non ha raso al suolo, mai, la fantasia al servizio della nostra tendenza alla disponibilità di essere meravigliati dall’esistenza e dal mistero. Sotto il cielo di Londra, in questi giorni, arrivano per noi italiani notizie incredibili, come una finale di un europeo di calcio e una semifinale di Wimbledon dopo sessant’anni. Forse qualcuno ci sta parlando ad un orecchio, suggerendoci come, ancora una volta, il nostro momento sia giunto, e non solo nello sport. Qualche intellettuale da piedistallo, piuttosto incarognito, potrà prendere nuovamente in giro le persone semplici, onnubilate da una cultura cristiana presente da secoli nella nostra penisola e tendente a far credere troppo facilmente ad un avvenire migliore. Ma non gli si dia troppa cura e importanza. Il prestigioso quotidiano francese “L’Equipe”, ha celebrato la vittoria della squadra di Mancini sugli spagnoli titolando in prima pagina, in rigoroso colore azzurro, con “L’allegria”. All’estero ci vedono da sempre così, allegri, con i nostri abbracci e i nostri ciao. Che dopo un periodo oscuro il calcio lo abbia ricordato a noi e a loro, dimostra agl’intellettuali da piedistallo come non siano geni, ma, appunto, solo appoggiati su un piedistallo e incapaci di stare sul bordo dell’impossibile. E non c’è altro da aggiungere.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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