“Scalano montagne per non fare niente sulla vetta”. Fernando Pessoa
Loquor
Torture e rapimenti lambiscono il calcio?
La guerra… se la si è vissuta, se ne si è stati spettatori, se la si è dovuta raccontare, se si è costretti continuamente a ricordarla, è qualcosa con il potere di riportarti alle cose essenziali e alla razionalità della verità. Dopo le vicende di un conflitto non si ha più voglia di perdersi in sofismi, in abbagli dell’immaginazione, nella presunzione e permalosità di menti esageratamente piegate su se stesse, alla ricerca di appigli verbali per giustificare l’ego esagerato e le proprie malefatte. Aver vissuto una guerra, in qualsiasi veste, ti da la capacità e la dignità di chiamare ogni cosa con il loro vero nome. Questa è l’unico lascito veramente prezioso di una guerra. L’ho letto anche negli occhi dei miei nonni, dei loro amici, di tutta la loro generazione. Per loro valeva il detto che la “moglie di Cesare non solo deve essere onesta, ma lo deve anche sembrare”. Non era esclusivamente elevato senso del pudore ma, ripeto, una ferma voglia di verità dopo tante tragiche efferatezze. In questa parte di mondo siamo diventati, tutti, dei vigliacchi opportunisti dalle smodate, anche quando sono piccole, ambizioni. Non c’è “l’altro io” quotidiano migliore prefigurato da Fernando Pessoa, c’è semplicemente un misero presente che si abbonda del “nostro io” mediocre. Diciamoci la verità: ci accontenta.
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Data questa situazione esistenziale, quindi, non deve sorprendere la totale mancanza di sconcerto (ed è un chiaro eufemismo) dell’opinione pubblica davanti al provvedimento francese di nominare tre magistrati per “fare chiarezza” sulle accuse di rapimento e torture fatte nei confronti di Nasser Al Khelaifi, numero 1 del Paris Saint Germain e presidente dell’European Club Association (ECA), il ghota dei club calcistici europei. Tutto nasce da una denuncia del lobbista franco-algerino Tayeb Benabderrahmane, che sarebbe stato sequestrato e torturato per via di alcuni “documenti sensibili” in suo possesso relativi all’organizzazione dei mondiali in Qatar e la vendita dei diritti televisivi sulle successive edizioni dei mondiali, quest’ultimi legati alla copertura mediatica degli eventi iridati 2026 e 2030 per il Medio Oriente assegnata a BeIN, network globale di canali sportivi di cui il presidente del PSG è il “Chairman”. Erano decenni che nella civilissima Europa, quella delle conquiste dei diritti civili e dei diritti non negoziabili, quella dove se si fa una battuta anche lontanamente riferita al sessismo o alla omofobia si viene subito messi alla gogna, e di altre fantasmagoriche allegorie del buon vivere, che un alto dirigente istituzionale non veniva accusato di torture.
E che questo rievocare tristi pagine dell’inizio del novecento sia dovuto al mondo dello sport, non può che far precipitare nello sconforto chi ancora ha a cuore il significato delle parole e dello spirito delle leggi. La psicologia insegna come la parola, sin da bambini, si apprenda per imitazione, dato come questa non sia solo un testo scritto su uno smartphone, ma al contrario sia un catalizzatore di scoperta di emozioni e di stati d’animo. Una parola non è un’asettica dicitura del catalogo della vita, e non è nemmeno un anestetico atto a sedare i sensi del tran tran quotidiano. Nel modo di pronunciare una parola a volte c’è tutta la differenza possibile da trovare. Pronunciare “Juventus” ha un significato diverso se giunge dalla ragione/cuore di uno juventino piuttosto che di un torinista.
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Il sentire pronunciare una parola definisce sul serio il “peso” reale di cosa si stia parlando. Nei giorni successivi alla scomparsa di Sinisa Mihajlovic, sarà capitato a tutti di ascoltare, alla stessa stregua di un refrain di maniera, l’aneddoto di quando salvò suo zio, il fratello croato della madre, dalla furia di Zeljko Raztanovic, il famigerato “Comandante Arkan” delle formazioni paramilitari serbe della guerra della ex Jugoslavia, in tempo di pace un teppista da curva elevato a banale capo ultras della tifoseria della Stella Rossa di Belgrado, in tempo di guerra trasformato in necessaria(a dire dei serbi) bestia sanguinaria della causa serba. Il racconto portato avanti ciclicamente del Mihajlovic che salva il parente declinato con dettagli da bar e con il tono di voce da presunti analisti sprovvisti di capacità di analisi, riduce il gesto del celebre sportivo serbo ad un banale fatto di cronaca da dribbling o da calcio di punizione. Il suono emotivo procurato dalle parole di questi presunti analisti risulta farsesco e non restituisce in nessun modo il dramma familiare ed esistenziale vissuto dagli jugoslavi degli anni 90 e da Mihajlovic, che nel maggio del 1999 trasforma un rigore ad Udine e mostra una maglietta bianca con il bersaglio e la scritta “target” per protestare contro i bombardamenti NATO in Serbia, epilogo di una delle più sanguinose guerre civili mai combattute in terra europea. Si può scrivere (e si è scritto) “non ha mai rinnegato la sua amicizia con il comandante Arkan”, ma è parola scritta ad escludere ogni tentativo di capire il vero senso di parole così messe in fila.
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Certo si può ampliare il campionario di parole, e magari usarle per descrivere le sensazioni dei fori di proiettili e granate ancora presenti nelle pareti di alcune case di Vukovar e Mostar, inframezzate da cimiteri senza recinzioni dove a colpire sono le numerose foto di giovani venuti a mancare negli anni 90. Ma bisognerebbe esserci stati da quelle parti, occorrerebbe averci ragionato almeno una volta su quella maledetta guerra; in caso contrario si rimane in mano con un semplice aneddoto da celebrazione funebre pop da sistema mediatico del terzo millennio. Ci si accoda alla tv della lacrima retorica, che fa trendy e illude di essere co-protagonisti tra i narratori di un dolore (lo psicoticismo e la tracotanza fanno il resto). Ma cosa si può pretendere da giornalisti e analisti occasionali, se anche una scrittrice molto in voga nel nostro Paese ha scritto un romanzo ambientato nel conflitto dei Balcani, dove l’unica cosa a rimanere impressa è la sua totale (della scrittrice) distanza e non conoscenza del contesto? Non c’è più empatia nel Vecchio Continente, rimasto con i suoi “rave party ideologici” a presidiare la calca delle parole presenti sulla rete e sui giornali, dove il loro suono diventa sempre di più un bisbiglio appena colto dall’udito.
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Succede, quindi, come la parola “tortura” associata ad una delle massime cariche calcistiche del Vecchio Continente non faccia nessuno effetto, non mobiliti nessuna protesta da parte dei tifosi del Paris Saint Germain, o di qualsiasi altro tipo di tifoseria. I giocatori inglesi, pronti ad inginocchiarsi prima del fischio di inizio di una partita per dei diritti disattesi, giocheranno tranquillamente al “Parco dei Principi” se gli eventi di una coppa europea lo richiederanno. C’è promiscuità dell’indifferenza in questo atteggiamento, una resa ad un mondo imposto come meccanicismo e verso il quale niente possiamo fare. Vogliamo restare vivi ad ogni costo e far scattare l’indignazione solo al comando tempestivo del mainstream. Il rapimento e le torture ipotizzate dalla magistratura francese (che dovranno essere provate, sia chiaro), miravano ad ottenere i suddetti documenti che comprometterebbero in modo assai grave Al Khelaifi. La battaglia legale si annuncia lunga, complessa e piena di trappole mediatiche; c’è da sperare si sia arrivati all’epilogo degli scandali legati ai mondiali del Qatar e tutto ciò che gravita intorno alla direttrice mondo arabo/FIFA. Si cerca una presunta “chiavetta usb” capace di svelare alcune verità inquietanti nei rapporti tra la massima istituzione calcistica mondiale e gli appetiti sportivi provenienti dal Medio Oriente.
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In attesa di saperne di più, provate per un attimo a pronunciare la parola tortura, a darle il tono che meglio credete, ad associarla a qualche immagine istintivamente venuta in mente. Provate a ripetere questo “gioco” più volte, come se andaste alla ricerca di qualcosa. Poi provate ad associare tutto ciò che state provando ad una persona di sport. Lo scopo di questo “gioco”? Onestamente non saprei, ma sono certo come ognuno troverà la sua risposta. Vi auguro buona fortuna, visto come si sia tutti sospesi tra la regola e il reato.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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