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Un anno senza Anthony Weatherill
“Quando il buon calcio si manifesta,
rendo grazie per il miracolo”.
Eduardo Galeano
“Runaway”, fuggire via è sempre stata la costante della vita di Anthony Weatherill, ma non un fuggire perché impaurito da qualcuno o da qualcosa, ma piuttosto un cercare continuo di afferrare costantemente di carpire il segreto di tutte le sue curiosità, perché per lui il mondo era semplicemente l’occasione di andare sempre a guardarlo con la malinconia dell’ultima volta, giurando ogni volta, proprio ogni volta, che non l’avrebbe guardato più. Ma era il giuramento vano di tutti gli Ulisse pronti a scommettere che se torneranno sani e salvi a Itaca finalmente saranno disposti a vivere una vita tranquilla e a partorire solo pensieri ordinari. Ma poi… poi eccolo tornare a guardare la rada nella speranza di trovare una nave pronta a salpare verso una nuova avventura, se poi era nel calcio allora tutto in lui si accendeva come Time Square a Capodanno.
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È passato un anno da quando, in punta di piedi, se ne è andato via, un anno da quando non ricevo più la sua consueta chiamata quotidiana per parlare di calcio e altre storie. Con la sua classica ironia british avrebbe definito un “pallone gonfiato” l’ultimo Pallone d’Oro consegnato a Leo Messi, ribadendo come gli arabi ci stiano togliendo persino il sano gusto dell’autoironia, vista l’impossibilità di essere ironici quando si è continuamente comprati. Anthony non era una persona controcorrente, era un pensiero ed un interrogativo e, soprattutto, una grande capacità di ascoltare. Aveva subito avvertito il pericolo della contrapposizione sterile che si stava avvitando attorno alle vicende pandemiche, e ne aveva previsto gli effetti: l’incattivimento, l’isolamento, la presunzione, l’arroganza, l’aggressività. Con il fisico azzerato dagli anticorpi, a causa della chemioterapia, non aveva rinunciato a fare la rischiosa passeggiata quotidiana, a scattare e mandare foto agli amici di angoli di Roma, città da lui tanto amata. Non ha mai accettato di vivere nella paura, nemmeno nei momenti più difficili della sua esistenza.
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Ecco perché ha affrontato la difficile sfida della “Carta del Tifoso”, nonostante fosse conscio di andare incontro ad una sconfitta certa, con uno scotto da pagare non solo finanziariamente, ma anche nella reputazione. Credeva sul serio nell’archetipo ideale del tifoso innamorato senza riserve della sua squadra, disponibile a mettergli a disposizione anche parte del suo tempo. Il fatto di non essere capito lo aveva messo in conto, perché non era un fesso e aveva un’esperienza da vita straordinaria. Ma il calcio era l’amore della sua vita (secondo solo all’amatissima moglie Andrea, che in tutto lo ha supportato. E lui era conscio di non essere un tipo facile da supportare), era la “Camelot” dove passava ogni significato, ogni sentimento, ogni speranza. Non era una persona retorica, ma quando parlava dell’Inghilterra gli occhi gli brillavano, e chissà quanto si sarebbe divertito a vedere la finale europea tra Italia e Inghilterra, persino nell’epilogo a lui avverso della lotteria dei calci di rigori. Tifoso del Manchester United, era stato conquistato dal mondo del Toro, con cui si trovava in straordinaria sintonia e per cui ha tentato, fino agli ultimi mesi della sua vita, di trovare in giro per il mondo un’alternativa ad Urbano Cairo, verso il quale aveva frequenti gesti di stizza: era esterrefatto dal suo non comprendere il tesoro di storia e di sentimenti che la sorte gli aveva riposto tra le mani.
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Ricordo come fosse oggi un appuntamento (lo ricordo perché ero presente) con dei rappresentanti di un importante fondo internazionale e la sua appassionata descrizione di quanto undici maglie Granata potessero essere davvero un buon affare. Voleva bene a noi del Toro, perché ci aveva capiti. L’ingresso del fondo PIF nel Newcastle United (cosa che lui mi aveva anticipato più o meno un anno prima della sua scomparsa) lo avrebbe ulteriormente sconfortato; conoscendo le modalità della aristocrazia araba, gonfiata eccessivamente nell’orgoglio dai proventi del gas e del petrolio, sapeva fin troppo bene come gli investimenti smodati in qualsiasi attività dell’Europa, calcio compreso, non servivano per scopi di vittoria ma per affermare una forma di supremazia. La mentalità araba per lui non aveva misteri, aver lavorato con loro da quando aveva 19 anni lo aveva trasformato in una sorta di Lawrence d’Arabia dei nostri giorni. Capitava di confrontarci sul problema arabo in lunghe conversazioni fino all’alba, e mi incantava apprendere attraverso la sua esperienza la reale differenza, per molti versi inconciliabile, tra un mondo degli affari vissuto con il bagaglio della cultura giudaico/cristiana della Vecchia Europa e l’arcaico approccio alla vita da casta assolutista di questi nuovi ricchi muniti di “Kefiah” e dell’imprescindibilità dal “Corano”. “Questi non potranno mai afferrare la trasversalità sociale del calcio”, mi ripeteva sovente, incredulo dalla cecità insita nel desiderio di avere un presidente “Sceicco” ormai propagatesi a macchia d’olio tra le tifoserie dell’Europa.
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Non si rassegnava al relativismo e allo scetticismo di una cultura europea giunta fino al punto surreale di rinnegare la sua cultura giudaico/cristiana, e avrebbe di certo saputo interpretare la rinuncia del Paris Saint Germain alla congiura dell’idea della SuperLeague contro l’Uefa dell’ambizioso Aleksander Ceferin, bollandola come parte dell’intreccio di interessi arabo/francesi a danno soprattutto degli interessi dell’Italia nel Mediterraneo. Avendo, per lavoro, frequentato molto Parigi e il suo establishment non gli sarebbe sfuggita la postilla nel recente “Trattato del Quirinale” Roma/Francia di una possibile presenza militare transalpina nel nostro Paese, con conseguenze future ancora una volta nefaste per gli interessi strategici dell’Italia. Era appassionato di geopolitica e non gli difettava la visione d’insieme, frutto di una vita trascorsa davvero in giro per il mondo accompagnato dalla curiosità furiosa da cui era pervaso. Il calcio visto un anno dopo del suo essersi congedato dal mondo è sempre più aggrovigliato in interessi chiaro/scuri di difficile interpretazione, e si sta allontanando irrimediabilmente dal codice genetico originario del tifoso, la cui mutazione antropologico/culturale gli avrebbe procurato una tristezza senza fine.
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Anthony Weatherill ha lasciato molto di sé sul terreno di uno sport da lui amato senza riserve, e forse la sua voglia di portare a compimento una “Città del Calcio” in Arabia Saudita ne aveva minato irrimediabilmente la salute fisica. Personalmente mi ha insegnato a credere alle cose anche nell’umano dubbio, mi ha portato a vedere il calcio nella sua vera luce, mi ha convinto a vivere fino all’ultimo respiro quantunque dovessi anche pensare di essere giunto all’ultimo giorno: lavorare per il futuro, questa è il suo lascito esistenziale e spirituale. Salutarlo, ieri come oggi, mi è impossibile e una parte di me aspetterà sempre una sua telefonata per parlare di sport, politica e vita vissuta. “Loquor” sarà sempre la sua rubrica e spero di essere stato, almeno un poco, all’altezza delle sue aspettative e del suo amore e rispetto per i tifosi del Toro. Nel corso di una nostra visita in una chiesa fu attirato da una iscrizione tratta dalla “Lettera ai Corinzi”: “Solo per la grazia di Dio sono ciò che sono. E la grazia che mi è stata concessa non è stata vana”. Puoi giurarci come non lo sia stata, amico mio, puoi giurarci tranquillamente tutte le volte che vuoi. Alla prossima.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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