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Luci e ombre di Paolo Rossi

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Loquor / Carmelo Pennisi prende in mano la rubrica che ha realizzato per anni con Anthony Weatherill: “Paolo Rossi, el hombre del partido”

In memoria di Anthony Weatherill, Toro News è lieto di annunciare che la rubrica "Loquor" continuerà. A portare avanti l'enorme eredità di pensiero lasciata da Anthony sarà Carmelo Pennisi, che insieme a lui già collaborava per la stesura della rubrica condividendo opinioni, ideali e sensibilità. Buona lettura!

“Paolo Rossi el hombre

                                                                           del partido”

“Ah, che terribili cinque della sera! Eran le cinque a tutti gli orologi! Eran le cinque in ombra della sera!” Devono aver ricordato queste immortali parole di Federico Garcia Lorca, scritte in memoria del “torero” e amico Ignacio Sanchez Mejias, i cinquemila tifosi dell’Espanyol radunatesi alle cinque della sera del 21 settembre 1997 di fronte allo  stadio “Sarrià”, per assistere alla mesta cerimonia della sua demolizione. Lo stadio era stato venduto per sanare i debiti del club, e al suo posto avrebbero costruito un centro commerciale. Impressionante paradigma del nostro tempo. I tifosi, quella sera, sfondarono il cordone della polizia, per andare a depositare fiori al suo interno. Riportata a fatica, con molta fatica, la calma, gli addetti alla demolizione fecero finalmente detonare i settanta chili di esplosivo. Il boato fu spaventoso, più per il colpo al cuore che per la reale consistenza del rumore: ma il “Sarrià” non si era piegato subito. Certo si udirono scricchiolii sinistri e si videro tremolii ovunque nel suo scheletro. Ma continuava a restare in piedi, come un pachiderma in cerca di trovare la forza necessaria per un ultimo barrito. “Lo stadio resta in piedi! Non muore!”, gridò la folla, in un’ultima disperata e accorata preghiera. Forse lo spirito delle gesta compiute nel suo prato da Zamora, Di Stefano, Maradona, Zico e Paolo Rossi stavano contribuendo all’inizio di una rivoluzione contro la morte. Ma fu solo un’illusione regalata da quello che fino a quel momento era stato uno dei “totem” della zona alta della “Avinguda Diagonal”, una via che per 11 chilometri  taglia diagonalmente Barcellona.

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In un attimo, dopo aver sbuffato per un’ultima volta, il pachiderma si piegò su se stesso e da quel momento furono solo detriti e ricordi di chi lo aveva conosciuto. Settantaquattro anni di storia erano stati dati in cambio di soldi. Tredici anni dopo, nel 2010, il settimanale “Time” decreta Italia-Brasile dei Campionati del Mondo del 1982, giocata proprio al Sarrià, “la più grande partita mai giocata”. La vita e le opere calcistiche di Paolo Rossi potrebbero riassumersi tutte in quel giorno, in quella calura strabordante emanata da un prato verde diventato improvvisamente un catino pronto ad accogliere metallo fuso. C’è la sintesi esistenziale del ritorno di Ulisse ad Itaca, in quel fulmine denominato “Paolo Rossi” abbattutesi senza pietà su chi dell’allegria ne ha sempre fatto una filosofia di vita. Rossi, “Pablito” da quell’ira funesta appalesatesi al “Sarrià”, frantumò, almeno per un giorno,  l’idea tutta brasiliana di una vita pensata da Nostro Signore come un “Carnevale” a precedere il “Paradiso”. Per fortuna non sanno, i brasiliani, che gli italiani usano  “signor Rossi” o “signor Bianchi” per indicare l’anonimo del quotidiano, o per relativizzare qualsiasi concetto ritengano giusto relativizzare. Il “signor Rossi” è il trionfo di “tizio” e “caio”, l’anonimato che si fa ancora più invisibile. Sarebbe troppo, per i “carioca”, venire a conoscenza di essere stati affondati dall’invisibile.

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Eppure di invisibile c’è stato davvero assai poco nella vita del Paolo Rossi nazionale, compreso il fatto di aver fatto diventare “Made in Italy” il cognome Rossi, elevandolo nel cenacolo del lusso alla presenza di un Armani o di un Gucci. Arte italiana, si direbbe, dove forse il paragone più assomigliante potrebbe essere quello con Caravaggio. Come l’artista lombardo, Paolo Rossi, nel suo modo di rapportarsi con il pallone era concentrato sulla pura resa della realtà. Caravaggio amava rappresentare gli ambienti sordidi, li conosceva bene, dato che la sua irrequietezza di carattere lo aveva sovente portato al centro di varie vicissitudini. Secondo un analisi di Vittorio Sgarbi, il pittore che sdogana il reale nell’arte della fine del cinquecento ebbe un’esistenza paragonabile a quella di Pier Paolo Pasolini. “Entrambi – ricorda il critico d’arte – conducevano una vita drammatica e violenta, in contrasto con la loro intelligenza”. Mario Sconcerti, che è stato amico del centravanti “mundial”, lo ha definito “colui che di mestiere rubava il tempo”, sinonimo involontario del furbetto sempre pronto alla sorpresa sgradita a tuo danno. Ecco perché forse non viene creduto quando esce fuori l’affaire “Calcioscomesse” messo in piedi da Massimo Cruciani e Alvaro Trinca. Rossi si è sempre proclamato innocente, vittima di circostanze sfortunate più che di fatti concreti. A mio parere non aveva partecipato a nessuna combine, e bisogna ricordare come la giustizia ordinaria lo scagionerà, ma analogamente a Caravaggio e Pasolini, il ragazzo di Prato trovava sempre il modo di gettare qualche ombra sulla sua persona. Inspiegabile, infatti, è il non rendersi conto della gravità di alcune sue parole, come quando, nel tentativo di difendersi, aveva provato a rievocare quel giorno in cui Mauro Della Martira, suo compagno di squadra, lo aveva coinvolto in un rapido incontro con Cruciani, nel ritiro del Perugia prima della partita con l’Avellino.

Il commerciante di frutta romano, al processo parlò di un accordo, dietro un compenso di due milioni di lire, per un pareggio tra campani e umbri. E pareggio avvenne, due a due. Ma ecco le parole di Rossi a rievocare quel giorno: “io pensavo alle solite partite che si concordano tra due squadre. Se a tutti va bene il pari, si pareggia. Ci sono sempre state nel calcio e sempre ci saranno, anche adesso. Ma al calcio scommesse non ho pensato mai, non sapevo nemmeno che esistesse”. Come ho detto, non ho mai creduto ad un Rossi coinvolto con le scommesse, ma questa sua rievocazione dell’accaduto nel ritiro del Perugia getta qualche ombra e una considerazione non proprio piacevole. L’ex giocatore della Juventus, nel tentativo di difendersi, ammette come “solite partite” i risultati concordati tra due squadre a cui conviene il pareggio. E’ “il meglio due feriti che un morto” invocato a suo tempo da Gigi Buffon, anche per il portiere pratica consuetudinaria nel mondo del calcio. Pare chiaro come per Buffon e Rossi il problema della veridicità dell’avvenimento sportivo e della correttezza non gli sia mai passato per la mente. E’ lo scoprire il re nudo e asserire come in fondo ciò sia assolutamente normale. Le parole improvvide di Rossi, analogamente all’arte di Caravaggio, riportano ai nostri occhi ciò che non dovrebbe essere visto, dove non esiste un destino diverso, ma solo un mondo la cui rappresentazione scenica siamo costretti ad accettare. Non c’è, quindi, rivelazione o riscatto universale, ma solo condivisione di una realtà deteriorata e ammissione di indifferenza alla “Grazia”.

Ma oggi, nel suo saluto finale al mondo, mi piace ricordarlo in quella magica partita del luglio 1982. Luis Carlos Ferreira, detto Luizinho, quel giorno era stato designato alla sua marcatura, e in seguito ebbe modo dire come “Pablito” “in quel momento fosse proprio illuminato e chi gioca, o abbia mai giocato a calcio, sa che esistono giorni in cui le cose non girano, dove nulla è sicuro”. Anche Zico, il Giove degli dei di quella nazionale carioca, in seguito affermò che “se quel pomeriggio avessimo segnato anche dieci gol, Rossi ne avrebbe fatti undici”. E’ indubitabile come Paolo Rossi abbia regalato una delle gioie più belle vissute dalla nazione italiana, in special modo a quella sparsa in ogni angolo di mondo. In quell’estate del 1982 tutti gli emigrati del BelPaese si sentirono per un attimo, ma è l’attimo che conta, vicini a chi in quel momento stava festeggiando per le strade di casa della loro terra d’origine. Dopo quella partita, mio padre comprò il biglietto della finale di Madrid e si recò con entusiasmo in Spagna. Tanto la semifinale con la Polonia era ormai considerata da tutti poco più di una pratica da espletare, prima della grande gioia conclusiva. Avevamo battuto gli dei del calcio e una delle squadre più belle di sempre. Paolo Rossi continuò a segnare fino alla fine, anche nell’emozionante finale di Madrid, in un “Bernabeu” completamente avvolto da bandiere tricolori. Nel ricordare quei giorni di resurrezione personale, Rossi, a cui non difettavano sincerità e umiltà, mostrava sempre una certa incredulità: “Non ero un fenomeno. Non ero nemmeno un fuoriclasse. Misi le mie qualità al servizio della volontà”. In queste parole c’è la sintesi di tutta l’esistenza dell’attaccante di Prato, tutto il suo richiamarsi al centro dell’italianità: cuore e tenacia. Ed è ancora l’analogia con Caravaggio a farsi avanti, attraverso le parole di Candido Cannavò, indimenticato direttore della Gazzetta dello Sport, nei giorni delle celebrazioni post vittoria mundial: “Dopo il martirio di un difficile, esaltante e doloroso ritorno, ha reinventato se stesso riprendendo in mano il pennello dell’artista che è in lui”. “No, non è possibile. Ancora lui. Paolo Rossi. La disgrazia si è abbattuta sul Brasile”, disse affranto il telecronista brasiliano. Grazie Paolo, anche a nome di chi non ha avuto occasione, per ragioni anagrafiche, di vedere quella partita. Ciao.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con Anthony Weatherill della rubrica "Loquor" su Toro News, annovera tra le sue numerose opere e sceneggiature quella del film "Ora e per sempre", in memoria del Grande Torino.