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Mancini, Spalletti, Gravina. Conclusioni?

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Torna un nuovo appuntamento di "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Essere diversi non è una passeggiata”.

Cassandra Clare

“Come le erbacce soffocano i campi, l’odio soffoca la natura umana. Perciò onora chi è libero dall’odio. Come le erbacce soffocano i campi, l’illusione soffoca la natura umana. Perciò onora chi è libero dall’illusione. Come le erbacce soffocano i campi, il desiderio soffoca la natura umana. Perciò onora chi è libero dal desiderio”. Le parole del Gautama Buddha sono talmente un vasto programma improponibile per l’animo umano da sembrare più un caleidoscopio dell’anima che una via possibile e concreta da applicarsi alla prassi quotidiana. 

Men che mai nel calcio, che senza ambizione e passione sarebbe solo un passatempo ovattato da circolo del bridge. Costretti ad essere distratti per non rischiare di morire, non sempre ci rendiamo conto dell’ambizione tramutata in nefandezza proprio sotto i nostri occhi. Ci sopravvalutiamo e quindi impossibilitati di vedere la nostra stupidità riflessa nello specchio della vita. “Capisco di calcio”, è la tracotanza da bar sovente esposta sui social, attribuendo connotati da fisica quantistica ad uno sport in fondo molto semplice, a cui a tale semplicità deve la sua enorme popolarità planetaria. Si vuole dottoreggiare, esporre teoremi, applicare l’evoluzionismo darwinista a un gioco in fondo sempre uguale a se stesso. 

Allora cominciamo sul serio a fare interminabili polemiche su un allenatore, già eccessivamente ricco e famoso, all’improvviso desideroso di staccare la spina dal suo incarico di Commissario Tecnico della Nazionale. Ci perdiamo in retroscena da geopolitica del potere pallonaro, e con la bacchetta dell’immaginazione diventiamo epigoni di Lucio Caracciolo, noto tifoso viscerale della Roma ma, soprattutto, direttore di “Limes”, autorevole rivista di Geopolitica. Qualcuno ha scritto di non credere al peccato originale in senso cristiano, che però “senza questo mito non si può capire la storia umana influenzata dalla natura umana corrotta fin dalla nascita”. Nei giorni subito dopo le dimissioni di Mancini, qualcuno mi aveva sussurrato la possibilità dell’approdo di Luciano Spalletti alla guida della nazionale, ipotesi che aveva raccolto tutto il mio scetticismo. 

 

Non mi pareva possibile l’idea di una persona appena reduce da una impresa storica come quella dello scudetto del Napoli, mettersi in gioco in una situazione disperata come quella della più scarsa rappresentativa calcistica italiana a mia memoria mai vista. “Mi dicono che l’uomo è vanitoso, e vorrebbe dimostrare di riuscire dove tutti, negli ultimi anni, hanno fallito”, insistette questo “sussurro”, portando a sostegno di questa sua indiscrezione una fonte all’interno della Federazione. I fatti, come si sa, hanno dato ragione a questo “sussurro”, e ora il tecnico di Certaldo si appresta ad iniziare un’avventura azzurra con davanti una qualificazione agli europei diventata davvero assai complicata. La stampa attende con curiosità e appetito la sua prima conferenza stampa ufficiale, vista la bizzarra verbosità di Spalletti sia sempre stura anche di esposizione di una personalità tesa a voler far discutere di sé oltre assieme ai suoi discorsi in materia calcistica.

Perfettamente allineato agli stilemi di comunicazione degli allenatori contemporanei, il tecnico toscano sa bene cosa deve dare alla stampa per ricevere in cambio un contributo significante per la costruzione del suo mito, necessario per restare al centro della scena del calcio spettacolo poco disponibile a concedere occasioni importanti solo in base al talento, di cui Spalletti, sia chiaro, dispone in abbondanza. Ma i cimiteri sono pieni di persone a cui non è stata concessa la possibilità di esibirlo, il talento, e allora bisogna fare di necessità virtù. In un mondo del calcio dove in genere tutti i protagonisti sono abili nel mantenere un “mutismo” imperturbabile, gli allenatori sono l’unica categoria ad essere ciarliera senza soluzione di continuità. Parlano e fanno riempire pagine di giornali, alimentano la loro figura, sembrano dei perfetti compagni di “padel” (lo sport al momento in voga che piace alla gente che piace) per una stampa costantemente in affanno sul trovare qualcosa di decente e interessante da raccontare. 

 

Orfana dei giocatori, centellinati dagli uffici dei club manco fossero dei frati di clausura con il voto del silenzio, la comunicazione sportiva si è sbizzarrita con quel che aveva creando il mostro dell’allenatore guru. Così si spiega la follia tutta araba di offrire, pare, un contratto da 30 milioni di euro l’anno all’ex giocatore di Sampdoria e Lazio, una cosa assolutamente asimmetrica con il reale peso di un allenatore nelle vicende di una squadra di calcio. Ma pochi allenatori sono riusciti a costruirsi un’immagine accattivante come ha fatto Roberto Mancini, evidentemente ingegnoso a farsi voler bene dai giornalisti che contano, ombroso al punto giusto per somigliare al fascino accigliato di Humphrey Bogart. Gli manca solo la sigaretta perennemente accesa tra le mani ma solo perché il manuale del politicamente corretto l’ha depennata dalle cose da potersi fare. 

Siamo in un mondo dove le uniche regole da seguire sono quelle “woke” o quelle dettate dalle varie organizzazioni con il compito assiduo di farci capire, a noi teste dure, cosa sia giusto credere nel mondo di domani. In questa follia surreale e comica da vendita della “Fontana di Trevi” di Totò, non deve stupire se nessuno stia facendo caso ad una Federazione decisa ad ignorare una clausola del contratto vigente tra il Napoli e Spalletti, che sancisce l’impossibilità di quest’ultimo di allenare per un anno. “Le questione tra Spalletti e De Laurentiis non sono affar nostro”, hanno fatto sapere in tutta fretta da Via Allegri non appena il presidente del Napoli si è messo a sparare a palle incatenate contro l’ipotesi del suo ex allenatore assunto come nuovo conducator azzurro. 

Aspettando che la contesa sia risolta in un’aula di tribunale, non si può non rimanere basiti di fronte ad una federazione ignava rispetto alla clausola di un contratto depositato in Lega da un club iscritto da un campionato da lei organizzato e dove ha funzione di garante. “Mi mancano le conclusioni”, ha scritto qualcuno smarrito di fronte alle nefandezze tenaci nel non volersene andare o di volersi prendere almeno una pausa. Così, giusto per farci tornare a praticare un po’ di speranza. Siamo segnati dal dolore e dal male, e oggi non riusciamo più ad elevarci dalle nostre meschinità nemmeno per un attimo. Sono inondato da messaggi, a proposito dell’eventualità di uno sbarco di Mancini in Arabia, sostanziati da un unico leit motiv: “contano solo i soldi”. Strano, pensavo fosse un fatto ormai assodato l’onnipresenza dei soldi nella nostra società, visto l’insistenza continua a parlarne. Ogni vertice europeo parla solo di soldi, spacciando tutto come occasione per ribadire il concretizzarsi della realizzazione sempre più vicina del sogno di Altiero Spinelli. E quindi quali sono queste conclusioni a mancare? William Shakespeare ne “Il Mercante di Venezia” stabilisce senza alcun dubbio l’impossibilità di tagliare una libbra di carne senza versare del sangue, ed è lì che il povero “Shylock” comprende di essere stato fregato e quindi di non poter veder soddisfatto il suo credito senza mettere in pericolo il possesso di tutti i suoi averi. I potenti, quelli a cui il “diritto” è sempre amico, lesto nel trovargli scappatoie utili per far scomparire la frode e soddisfare ogni appetito. 

Tutto è mosso dal denaro, ma non bisogna mai dimenticarsi che esso si fonda su un potere, scaltro nel tormentare gli uomini sfrugugliandone ambizioni e avidità. “Mancini adottami”, è stata l’ironia social di un tifoso a commento dei 30 milioni annui offerti dall’Arabia Saudita. “Faccio quello che voglio”, è il sottotesto del comportamento di Spalletti desideroso di sedere sulla panchina azzurra per pura ambizione vanitosa. “Si scannino pure tutti, e vadano a ramengo ogni regola o principio etico. Io voglio farla pagare a Mancini mettendo sulla panchina da lui mollata l’allenatore protagonista di una impresa storica”, rilancia e si vendica il presidente Gabriele Gravina. Il risultato è un panorama desolante, la fine di ogni possibilità di credere ad un principio, la sconsolata certezza di avere una elite da fine impero, inguardabile in ogni suo comportamento. Non ha torto Shakespeare quando si arrende alla stolidità del mondo e mette in bocca a Shylock l’unica invettiva possibile, stregua di un chiaro monito: “e se ci fate un torto, non dovremmo noi vendicarci? 

Se siamo come voi per il resto, vogliamo assomigliarvi anche in questo”. Nel calcio contemporaneo invidiamo, adoriamo, amiamo, stimiamo, difendiamo, ricordiamo persone costantemente votate al nichilismo: non è per questo che un giorno fu inventato questo sport. Ma forse anche noi vogliamo essere così. Smemorati e nichilisti si vive meglio.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

Disclaimer: gli opinionisti ospitati da Toro News esprimono il loro pensiero indipendentemente dalla linea editoriale seguita dalla Redazione del giornale online, il quale da sempre fa del pluralismo e della libera condivisione delle opinioni un proprio tratto distintivo.

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