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Marchionne, lo sport e il calcio

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Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherhill: "A volte la vita è un cerchio che ti riporta, quando sei alla fine, proprio da dove sei partito"
Anthony Weatherill

“siamo dei sopravvissuti e l’onore

dei sopravvissuti è sopravvivere”

Sergio Marchionne

A volte la vita è un cerchio che ti riporta, quando sei alla fine, proprio da dove sei partito. Ho provato questa sensazione nel vedere il filmato dell’ultima apparizione pubblica di Sergio Marchionne. Era il giugno scorso e un mattino particolarmente tendente al bel sole splendente, e l’allora amministratore delegato di FCA Auto si era presentato al parco del Comando Generale dei Carabinieri per ratificare il dono, da parte di FCA,  di una Jeep Wrangler all’Arma.

Finito il breve discorso da cerimonia, il manager di origine abruzzese era stato subito circondato da giornalisti e personalità varie che da lui volevano essere notate. Ma Marchionne, in modo del tutto sorprendente, si era avvicinato ad un cane in servizio presso i carabinieri e, con un tono di voce inaspettatamente dolce misto a malinconia, si era chiesto se l’animale lo aveva riconosciuto come figlio di un carabiniere. In questa domanda c’era tutto l’uomo Marchionne, una persona che mai, con il cuore e con la mente, se ne era andato, a soli quattordici anni, dall’Italia alla volta del Canada per seguire il padre Concezio, carabiniere in pensione, e la madre Maria. E a poche settimane da lasciare questo mondo eccolo lì, davanti ad uno splendido cane, ritornare da dove era partito. Da quella provincia italiana dove essere figlio di un carabiniere, spesso vuol dire essere figlio di un uomo che ogni giorno prova a portare lo Stato tra la gente.

Nelle sue ultime parole pubbliche l’adolescente Sergio, alla fine, era tornato a casa. Con la fierezza di chi ce l’aveva fatta nella vita, e con l’orgoglio di essere figlio di un carabiniere, uno dei simboli eterni dell’Italia unita. Non è stato un uomo retorico, il manager italo canadese, e nemmeno troppo espansivo nei suoi sentimenti; ma, se si valutano attentamente tutte le sue azioni e si riascoltano tutte le sue parole da quando prese il comando della più importante azienda manifatturiera del Paese, si rintracciano continuamente, in modo incontrovertibile, atti d’amore verso l’Italia e i suoi interessi. Gli davano fastidio i tedeschi, e non lo nascondeva affatto, perché continuamente gli davano la sensazione che l’Italia, e gli italiani, dovessero sempre ringraziarli per qualcosa che loro gli avevano concesso.

Marchionne invitava gli italiani a reagire a questo stato di cose, esortandoli a ritrovare un po’ d’orgoglio nazionale. “Perché i nostri operai e i nostri ingegneri -diceva- le automobili le sanno proprio fare. E anche se i tedeschi scommettevano, in modo un po’ macabro, che l’Italia non avrebbe fatto più automobili, noi siamo ancora qui e ci siamo presi anche la Chrysler”. Forse è stata la spocchia dei tedeschi verso gli italiani, a convincerlo che la sfida sportiva della Ferrari contro la Mercedes doveva essere a tutti i costi vinta. Ecco perché, ad un certo punto, congeda Luca Cordero di Montezemolo e si mette sul ponte di comando del cavallino più famoso del mondo. Ripercorrendo le orme di Enzo Ferrari, quando all’inizio del secolo scorso si era messo in testa di dover costruire una macchina talmente veloce da poter battere le tedesche “Auto Union”, Marchionne aveva completamente rivoluzionato il reparto corse della casa automobilistica di Maranello. Aveva assunto giovani ingegneri italiani, perché sapeva benissimo, e in alcune interviste lo aveva più volte ripetuto, che quel tricolore campeggiante sulla fiancata delle “rosse” aveva bisogno di qualcuno che lo interpretasse attraverso un motore da corsa. Voleva che la Ferrari, e l’Italia, tornassero sul tetto del mondo delle corse automobilistiche. Sentiva di doverlo fare per questo Paese, e per tutti quegli emigranti italiani, come era lui, che sullo sfrecciare delle rosse nei circuiti di tutto il mondo da sempre  ripongono molti dei loro sentimenti.

Vedere, in questi mesi, tornare la Ferrari ad essere competitiva deve essere stata una soddisfazione di cuore immensa per lui. Ecco perché, annunciando che avrebbe lasciato tutte le cariche in FCA nel 2019, aveva precisato che in queste dimissioni non c’erano quelle di amministratore delegato della Ferrari. Voleva essere certo che, alla fine, la sfida a Maranello l’avrebbero vinta. “Non mi frega nulla del potere. Rispetto il potere a livello istituzionale, quello sì. E’ un insegnamento di mio padre, che era maresciallo dei carabinieri. Nulla di ciò che faccio è mosso da interessi personali”, aveva dichiarato una volta in una delle sue rare interviste, riuscendo a mettere a fuoco con grande capacità di sintesi cosa vuol dire essere classe dirigente. Ciò che si è chiamati a dirigere non è un bene personale per godere di privilegi e onori, ma una responsabilità verso gli interessi generali. A ribaltare uno dei classici luoghi comuni italici(“ciò che è bene per la Fiat è bene per l’Italia), rilascia una delle sue più significative dichiarazioni:”ciò che è bene per l’Italia è bene per la Fiat”.

Se i dirigenti sportivi italiani, soprattutto quelli del calcio, comprendessero questo ribaltamento concettuale “marchionnano” forse si vergognerebbero un po’ a causa della loro incapacità di comprendere come lo sport sia una delle basi principali di condivisione di valori culturali. Un “cemento” che può rendere un gruppo di persone una comunità, sedimentando con il passare del tempo tracce di memoria collettiva alle quali rivolgersi per ritrovare una ragione in un presente difficile. I presidenti del Coni che si succedono devono continuamente ricordarsi il carattere “pro tempore” della loro carica, e l’onore e l’onere di fare qualsiasi cosa in loro potere per tenere presente che gli interessi dell’Italia, in nome e per conto per cui agiscono, vengono prima dei loro interessi e delle loro beghe personali. Lo sport ricorda, per un suo carattere naturale, che non solo per quel che facciamo saremo ritenuti responsabili, ma anche per quello che non facciamo. Marchionne, forse perché laureato in filosofia, aveva compreso che le automobili non sono solo dei pezzi di metallo assemblati, ma sono parte della memoria di un paese che si va a costituire. Ecco perché aveva voluto una cinquecento di nuovo sul mercato, in uno dei momenti più difficili della casa automobilistica torinese.

La riproposizione della cinquecento è stato “l’urlo di battaglia” con cui un’azienda tecnicamente fallita, tale era la situazione della Fiat nel primo decennio del nuovo millennio, ha dichiarato la sua voglia di sopravvivenza. E lo ha fatto con “l’automobile feticcio” degli italiani, lo ha fatto con il simbolo della rinascita italiana del dopoguerra. I simboli e le tradizioni sono importanti, e chi ama il calcio lo sa. Lo sport più amato e seguito al mondo nasce e si afferma perché tutte le persone coinvolte da generazioni gli hanno dato un anima. Padre e figlio spesso si riconoscono nel colore di una maglia e, senza volerlo e con la loro diversità di vedute generazionali, fanno diventare un fatto antropologico/culturale una palla che rotola nell’infinità di prati verdi. Mi chiedo quale  “cinquecento”  possa salvare dalle grinfie di chi vuole un calcio in scena come uno spettacolo, dimenticando e provando a far dimenticare che lo sport non è un godimento ma uno stato d’animo.

Vorrei che i presidenti delle squadre di calcio realizzassero che loro presiedono non aziende, ma storie. E le storie non sono “brand” creati artificialmente dagli uffici marketing, ma sono ciò che noi siamo stati e sono le premesse di ciò che potremmo ancora essere. Lo confesso, a volte sono pessimista sul destino del calcio. Forse perché sono di quelli che credono che le idee camminano sulle nostre gambe, e non vedo molte gambe alla Marchionne nello sport italiano. Non vedo una stampa avvertire il pericolo di una scomparsa dello sport come fenomeno culturale e di memoria. Vedo tanti fantasmi seduti in posti di responsabilità, volutamente ignari come la vita sia un soffio nell’eterna storia degli uomini, completamente incoscienti della bellezza di fare azioni che cambino le cose in meglio.

Ma oggi, pur nella tristezza della sua scomparsa, la storia di Sergio Marchionne mi ha messo di buon umore e voglio sperare. Almeno per oggi facciamo che non esista Torino/Juventus, United/City, Real Madrid/Barcellona, Milan/Inter. Almeno per oggi facciamo esistere un destino comune, rivolgendo una preghiera comune a chi comanda nello sport: fate qualcosa per difendere la decenza del futuro che verrà. Ai dirigenti sportivi, specie a Giovanni Malagò, voglio dedicare un ultimo pensiero di Marchionne: "Quando arrivai in Fiat non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che forse non avrei dovuto accettare questo incarico. Ma era la Fiat, era un’istituzione del Paese in cui sono cresciuto”. Queste sono le parole di un uomo pronto a mettersi “a servizio” di qualcosa più grande di lui, conscio di avere dei limiti ma deciso a superarli (come servirebbe alla mia Inghilterra un uomo così). Sarà lavoro degli storici dell’economia e delle relazioni industriali, dare in futuro un quadro più obiettivo di questo che, indubbiamente, è stato un grande manager. Al momento, per uno così, vengono in mente le parole di San Paolo nella Lettera ai Corinzi:”solo per la grazia di Dio sono ciò che sono, e la grazia che mi è stata concessa non è stata vana”. Grazie Sergio. Ovunque tu sia.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

 

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

 

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