“I piaceri sono effimeri, gli onori sono eterni”.
columnist
Memorabile
Periandro
La Germania è stata eliminata al primo turno di un campionato del mondo. Non era mai successo. L’avvenimento, in queste ore, sta facendo godere molte persone in giro per il mondo, e la rete è invasa da commenti dissacratori su un Paese che, a causa di diversi problemi politici legati soprattutto a questione economiche, in questo momento storico non è molto amato. Come sono lontani(sic) i tempi del 7 a 1 inflitto ai brasiliani a casa loro, con giornali e commentatori italiani ad elogiare la rinascita del calcio teutonico grazie alla riorganizzazione del calcio giovanile tedesco e all’approvazione della legge sullo “ius soli” voluta dall’allora cancelliere tedesco Gerhard Schroder. La classe dirigente italiana (politici, giornalisti, scrittori, intellettuali, ecc…) ha sempre avuto, chissà perché, una propensione eccessivamente esterofila, ansiosa di mettersi in mostra ogni volta la cronaca degli avvenimenti gliene offre l’occasione.
Gli “altri” sono sempre più bravi, più intuitivi, più organizzati del popolo italiano, definito recalcitrante e refrattario, nonché tendenzialmente vittima della sua naturale propensione all’anarchia. Arrigo Sacchi, toccato dalla fortuna(insieme a Capello ed Ancellotti) dall’era del Berlusconi esageratamente munifico verso le sorti del Milan, non ha mai perso l’occasione di usare il calcio per denigrare l’Italia e, ovviamente, esaltare se stesso. L’allenatore di Fusignano ha una così alta considerazione di sé, da lasciarsi andare sovente a delle incredibili e superficiali valutazioni antropologiche sul popolo italiano, come in una intervista rilasciata al quotidiano “Avvenire” nell’ottobre del 2009:”per superare la crisi(da ricordare che l’Italia aveva vinto un mondiale appena tre anni prima), dobbiamo smetterla di considerare la furbizia una virtù e l’arrangiarsi un’arte. Il perfezionismo deve battere il nostro pressappochismo radicato”. Nell’intervista si evinceva chiaramente la difficoltà di un raro perfezionista, lui, a vivere in un mondo di sfaticati protesi ad avere il massimo con il minimo impegno possibile.
Avendo vinto un solo scudetto, e in un rocambolesco recupero ancora pieno di ombre nelle ultime giornate di campionato sul Napoli di Maradona, ben si comprende l’ardito paragone tra il Rosenborg vincitore di scudetti a cascata in Norvegia e la Juventus dominatrice degli ultimi anni calcistici italiani. “l’unica cosa che conta è la Champions League e in Europa la Juventus fatica”, dichiarò una volta, sicuro di pascolare nell’unico territorio, quello della Champions, che lo ha visto vincente nella sua carriera. Un personaggio come Arrigo Sacchi non poteva non essere adottato dalla classe dirigente italiana, da sempre atavicamente bisognosa di avere un feticcio al quale rivolgersi per sentirsi dire quanto gli italiani siano inadeguati a vivere il mondo e quindi, sostanzialmente, quanto sia inutile governarli.
Concetto espresso persino dallo sciovinista Benito Mussolini in un’intervista rilasciata al giornalista tedesco Emilio Ludwig nel 1932, e che vediamo spesso rincorrere gli italiani, in un processo di colpevolizzazione della vittima raramente visto nella storia delle vicende umane. E infatti, non appena tramontata la stella del “vate” di Fusignano, ecco appalesarsi all’orizzonte la luce sfolgorante e abbagliante di un altro personaggio assolutamente da imitare, almeno secondo la stampa italiana: Pep Guardiola. Come tutti gli iberici (meglio non definirlo spagnolo, altrimenti il suo spirito catalano potrebbe risentirsi), ama definirsi un rivoluzionario, un propagatore di idee che rimarranno immortali nel tempo; tutte sensazioni figlie della filosofia “donchisciottesca” postulata da Miguel Cervantes, in una eterna lotta contro “i mulini a vento” posta come unica vera necessità esistenziale. Dopo le prime affermazioni del Barcellona “made in Guardiola”, immediatamente in Italia comincia il processo agiografico di questo ex centrocampista di discreta fattura, che porta il suo “tiki-taka” ad essere elevato a dogma della fede. In poco tempo, sulle pagine della stampa italiana, i giovani calciatori del Bel Paese si accorgono di non appartenere più ad un “settore giovanile” di un club, bensì ad una “cantera”.
L’invito ad uniformarsi agli spagnoli, da parte di autorevoli penne, comincia a diventare sempre più pressante ed onnisciente. Tutti lì affannosamente a spiegare che il Barcellona è più di un club, un vero esempio da seguire per la rinascita delle fortune pedatorie italiche. Si assiste a vertiginosi paragoni con l’Italia, da parte di commentatori politici, che indicano il Barcellona come lo specchio della perfetta amministrazione della Catalogna. Poco importa se la Lombardia, rispetto alla regione spagnola, ha dati decisamente migliori su indice di disoccupazione e ricchezza prodotta. Poco importa se le recenti fortune del club catalano appartengano a quei noti fenomeni ciclici, da sempre caratterizzanti la storia del calcio, in cui il caso o l’Eterno decidono maturo il momento di mettere una nidiata di talenti fuori dal comune tutti sincronicamente nello stesso luogo. E’ accaduto negli anni 30 con il “Wunderteam” di Matthias Sindelar, è accaduto con la Grande Ungheria(l’”Aranycsapat”, la squadra d’oro) di Puskas, è accaduto con l’”Arancia Meccanica” di Johan Cruijff; e potrei continuare a fare esempi noti di grandi squadre che, improvvisamente, si costituiscono e fanno la storia. Non voglio certo sminuire l’importanza dell’organizzazione e della programmazione, assolutamente necessarie per un buon svolgimento delle cose della vita, ma quando il destino ti porta ad allenare un roster di assoluti campioni, solo un’eccessiva considerazione di sé può far concludere che le conseguenti vittorie siano frutto di una qualche idea rivoluzionaria. Nel calcio raramente si inventa qualcosa di nuovo, raramente è l’organizzazione a determinare un ciclo di vittorie.
Il calcio è quel fantastico sport fatto di dettagli, dove una squadra di mediocri talenti pedatori, la Svezia, può far fuori prima l’Italia e poi la Germania, cioè otto titoli mondiali complessivi. Amo questo sport perché è l’unico dove tutto è possibile e imprevedibile, perché appunto tutto è dominato da dettagli oscuri e indecifrabili. Amo questo sport, perché è uno di quei rari luoghi dove tutti hanno diritto di cittadinanza, e dove la Corea del Sud può vincere una partita mondiale contro la sintesi della riorganizzazione del calcio tedesco fatto di ius soli e multiculturalismo. Guardo ammirato, come Borges, le vicende di questa palla che rotola da infinite generazioni per stadi e campi arrangiati in ogni parte di mondo. Quando osservo i brasiliani giocare, ho ben chiaro la cosa più necessaria per sviluppare il talento di un adolescente avviato al gioco del calcio: l’anarchia e lo spirito di libertà. Il calcio nasce per strada, nelle spiagge, nei piccoli campetti di periferia, nella voglia di rincorrere la vita e sfidarsi. Provare e riprovare colpi impossibili, senza i consigli ossessivi di qualcuno alla ricerca di parametri giusti per uno spettacolo. Lo sport,e quindi anche il calcio, non sono la ricerca dello spettacolo ma del memorabile. E nessuno può insegnare la via che porta al memorabile. Quando l’Italia vinse contro il Brasile nel mondiale del 1982 non diede certamente spettacolo, ma segnò una pagina memorabile della storia del calcio italiano.
La cosa è rimasta nel cuore degli italiani, perché se lo spettacolo può allietare qualche ora, il memorabile ci fa “essere” per sempre. La differenza sta tutta qui, ed è semplice. Per cui stiano tranquilli i tedeschi, avendo vinto i mondiali con lo “ius sanguinis” e senza il multiculturalismo, e avendoli vinti con lo “ius soli” e il multiculturalismo, di certo torneranno a vincerli. E di certo tornerà a vincerli anche l’Italia, con o senza organizzazione di stampo tedesco o spagnolo. I tedeschi torneranno a vincerli perché sono sempre esageratamente convinti della loro forza, gli italiani torneranno a vincerli perché hanno una pazienza inesauribile. Sono due popoli straordinari, che da oggi condividono anche una Corea e una Svezia; due moniti apparentemente tristi, ma infinitamente positivi. Solo delle rovinose cadute possono ricreare i presupposti di risalite e di nuovi inizi. Germania e Italia ne hanno un disperato bisogno, e il calcio in questi ultimi mesi sta avendo per questi due Paesi la funzione di “specchio” per riflettere sullo sport e altre cose. Auguro una Svezia e una Corea anche per i campionati di club(o, se volete, altri Leicester), e auspico un impegno di tutti perché ciò accada. Per il resto sottoscrivo il twitter del portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert:”Non è la nostra Coppa del Mondo- è triste! Ci saranno altri tornei che ci tireranno su di nuovo”. In bocca al lupo. A tutti noi.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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