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Milan e Torino a cosa servono?

Anthony Weatherill
Loquor / Non credo che al Fondo Elliot, per la sua peculiarità costitutiva, possa interessare una bella riflessione di Steve Jobs, ma forse ad Urbano Cairo potrebbe servire

“Il prezzo è quello che paghi,

il valore è quello che ottieni”

Warren Buffet

Le storie attuali di Torino e Milan si assomigliano, tristemente si assomigliano. Sono due grandi club della straordinaria narrazione del calcio italiano, che da anni non riescono più a trovare un filo logico con la loro storia. Il Torino questa crisi la vive da più tempo, e addirittura è stato vittima di un fallimento, che ne ha paventato la scomparsa definitiva dal calcio. Il Milan, invece, vive una crisi infinita dal momento in cui Silvio Berlusconi decise come il calcio non fosse più funzionale alla sua esistenza di uomo e di imprenditore.

Il calcio, al solito, a guardarlo bene diventa una cartolina in cui sono inseriti dettagli che invitano a riflettere su qualcosa a travalicare il calcio stesso. Sono crisi, quelle di Milan e Torino, che raccontano come qualcosa nel “Sistema Italia” si sia inceppato, facendo precipitare uno dei Paesi più belli ed affascinanti del mondo in un’agonia senza fine. L’Italia, con un impressionante e singolare processo di rimozione che non trova nessun riscontro simile nelle secolari vicende umane, ha condotto una guerra senza sosta contro ogni sua radice e ogni sua tradizione. Questa guerra, ne sono certo, sarà oggetto di numerosi studi dagli storici e dagli antropologi del futuro, perché siamo davvero di fronte ad un clamoroso esperimento sociale di suicidio assistito.

Assistito da una classe dirigente amorfa. La quale classe dirigente, invece di interrogarsi continuamente in cosa comportano le sue responsabilitàverso il popolo, ha preferito dedicarsi all’accaparramento di beni materiali e immateriali sotto forma di sempre più potere. Tutto questo mentre la platea da curare era diventata sempre più il mondo, a scapito della comunità. Ed è normale, in una logica mondialista prevaricante sulla logica della comunità, come dopo un po’ di tempo l’unico valore di riferimento diventino unicamente i fatturati e il mantenimento ossessivo di essi. I valori comunitari e identitari, in tale contesto, sono diventati inutili orpelli arcaici, da riesumare solo in alcune circostanze in cui la cattiva retorica serve a placare degli animi resi inquieti dallo svelamento della verità che a volte la realtà ci offre come occasione di liberazione. Sembrerà strano: ma a volte non vogliamo vedere quel che pure è sotto i nostri occhi.

Preferiamo mettere in “sonno” la coscienza, forse perché siamo stanchi di soffrire, forse perché semplicemente più comodo. E allora giungiamo a ritenere come davvero siano i soldi a fare la differenza nella costruzione di una squadra di calcio, e questo nonostante la storia recente del Milan ci dimostri esattamente il contrario. Perché forse ad alcuni non è abbastanza chiaro quanto la società rossonera abbia investito sul mercato negli ultimi sette anni, e non starò qui ad annoiare con numeri e dati facilmente reperibili sulla rete, perché la cosa da notare ècome da sette anni il Milan non riesca a piazzarsi tra le prime quattro del campionato. E tutto questo con budget di mercato e ricavi costantemente superiori ad una società come il Napoli. Richiamare Maldini e Boban in società, a proposito della cattiva retorica, non sta servendo, e temo non servirà,  a far cambiare la situazione se non si chiarisce in che direzione debba andare la gloriosa società milanese.

Ad una società di calcio, come a qualsiasi altra intrapresa della vita, occorrerebbe quel che si dice un progetto, atto a delineare lo scopo verso il quale devono essere necessariamente indirizzati tutti gli sforzi. Volendo porre la domanda in maniera più terra terra: a cosa serve? A cosa servono le storie di Torino e Milan?

Il giorno della rinascita del “Filadelfia” è stato un bel giorno, perché un pezzo di memoria del calcio italiano era rivenuto alla luce. Qualcuno, illudendosi non poco, aveva ritenuto che il “Filadelfia” potesse anche essere una sorta di nuova linfa vitale per il Torino Calcio. E anche su questo torno a riporre la domanda: a cosa serve? A cosa serve aver ridato vita al mitico stadio del Grande Torino se poi, dall’attuale allenatore granata, si sente dire in una conferenza stampa: “Chiellini si scorda sempre di quello che ha fatto il giorno prima, e nell’allenamento dopo ha il fuoco negli occhi”. Ora, a parte il pessimo uso della lingua italiana operato da Mazzarri, vien da chiedersi quale sia il reale stato di preparazione mentale degli allenatori che siedono sulle panchine di una delle più prestigiose e ricche leghe calcistiche del mondo. Non serve essere un genio o un assiduo frequentatore di Torino (splendida città), per comprendere come certi riferimenti al mondo bianconero un allenatore del Toro proprio non se li possa permettere.

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La conoscenza e le peculiarità del mondo in cui si lavora dovrebbero far parte del bagaglio professionale di un allenatore posto ad occupare una delle panchine più importanti della Serie A. Se Mazzarri si fosse preoccupato di conoscere queste peculiarità, non solo avrebbe risparmiato ai tifosi granata il riferimento ad un giocatore simbolo della storia bianconera, ma avrebbe anche compreso cosa i i tifosi del Toro si aspettano dai propri giocatori quando entrano in campo. Pessima, inoltre, è stata la “pezza” che ha provato a mettere Antonio Comi su questa vicenda: “il mister ha parlato di un suo giocatore avuto da giovane… che a trentacinque anni ha ancora il sangue negli occhi che aveva a vent’anni…  nessuno voleva offendere il mondo granata”. Qui siamo all’aggravante di un direttore generale del Torino,  da calciatore cresciuto nelle giovanili del Toro sotto la responsabilità di Sergio Vatta, che di valori granata era assiduo frequentatore.

E la domanda ritorna su alla stessa stregua di un misterioso fiume carsico: a cosa serve il Torino? Paolo Maldini ha recentemente dichiarato che “se Elliott vuole vincere tra quindici anni io e Boban lasciamo”. Maldini è più di un’icona della storia rossonera,  è alla stessa stregua di un importante valore di famiglia. Non sorprende, quindi, se in cuor suo,ad un certo punto, deve essersi fatta largo una domanda: a cosa servo io? L’ex difensore del Milan e della nazionale sa bene, per formazione valoriale e storia, quale deve necessariamente essere l’approccio del Milan al calcio. La storia del club rossonero gli impone di essere ai vertici, e con onore, di questo sport. Non ci sono altre opzioni, e non ci sono altre strade. Maldini, e la cosa gli fa onore, ha dovuto prendere posizione contro l’attuale proprietà rossonera. Elliot è rimasto male di fronte alle dichiarazioni del suo dirigente, perché ignora che Maldini non sta difendendo semplicemente una squadra di calcio, sta difendendo la sua famiglia. Una famiglia composta da milioni di tifosi. E non si può tradire la famiglia. Ma il fondo Elliot non può capire Maldini, perché probabilmente non ha ben valutato cosa sia il Milan. E prima di lui non l’ha capito la transitoria proprietà cinese e l’ultima fase della presidenza Berlusconi.

Un club calcistico non è una macchina per fare utili, anche se nell’ultima assemblea degli azionisti della Juventus, Andrea Agnelli ha tornato a definire “consumatori” i tifosi. Un club calcistico è la storia infinita di valori tramandati da generazione in generazione. Quindi, prima di agire per conto di esso, bisognerebbe comprenderli questi valori. Ecco perché il para-impegno distratto di Urbano Cairo sulla ricostruzione del “Filadelfia” è una ferita difficilmente rimarginabile nel cuore dei tifosi. Come difficilmente gli potrà essere perdonata l’abissale distanza agonistica ormai  createsi tra Torino e Juventus.  

E’ davvero triste vedere i bianconeri non temere più i granata in occasione del derby. Aver messo il Torino nella condizione di sperare di strappare al massimo un pareggio al Derby della Mole, vuol dire non aver proprio afferrato a cosa serve il Torino. Il Torino che non prova a lottare con coraggio e determinazione contro i “ricchi”, non è più il Torino. E’ solo una macchina per fare del fatturato e un po’ di utile, grazie a quell’amore che non conosce fine, segno caratteristico dei tifosi di ogni tempo.

A Milan e Torino serve un progetto che dia una visione, un orizzonte credibile. I due club non sono né di Cairo,né di Elliot; sono valori espressi nel tempo dalla società italiana, che un tempo non era abituata a dare un prezzo a qualsiasi cosa. Qualcuno ha scritto da qualche parte che “sono sempre quelli senza valore a darsi un prezzo”, e mi sembra un giusto monito da passare a Cairo ed Elliot, per spingerli a prendere delle decisioni coerenti con la storia di cui sono proprietari pro tempore. Se non vogliono o non sono in condizione di servire questa storia, allora forse è il momento di pensare apassare la mano.

Non credo che al Fondo Elliot, per la sua peculiarità costitutiva, possa interessare una bella riflessione di Steve Jobs, ma forse ad Urbano Cairo potrebbe servire: “essere l’uomo più ricco del cimitero non mi interessa. Andare a letto la notte sapendo che abbiamo fatto qualcosa di meraviglioso: questo è quello che mi interessa”. Poche cose, come una squadra di calcio, possono permettere ad un ricco di fare meraviglie. Ci pensino Urbano Cairo ed Elliot, e riportino Milan e Torino a ciò per cui sono serviti, a ciò per cui servono, a quello che per sempre serviranno.

Di Anthony Weatherill

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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