“un eroe ha bisogno solo
columnist
Nel fondo della porta di Salvatore Sirigu
di un paio di guanti”.
Anonimo
“Io mi alleno tutti i giorni per essere al top. Devo onorare la mia carriera che oggi è al Torino e devo onorarla”. E poi: “vi assicuro che lo spirito del Toro è tutto meno che un concetto astratto”. Questo è Salvatore Sirigu, in alcune sue dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni. Dichiarazioni che mi hanno ricordato una frase di Francesco Cossiga, suo conterraneo illustre: “i sardi rimangono amici anche se uno commette reati”. Il portiere del Toro è venuto al mondo a Nuoro, uno dei tanti luoghi ricchi di storia di una Sardegna orgogliosa di essere fuori dal mondo eppure nel mondo. Una terra che non ha un dialetto ma una lingua, talmente complessa e antica da suscitare furiosi dibattiti tra i linguisti per stabilire da quale ceppo linguistico originario derivi effettivamente il nome della meno popolosa tra le province sarde, in modo da stabilirne finalmente e definitivamente un significato al nome. L’orgoglio sardo non è una cosa da prendere sottogamba, è questione che non si dimentica mai, anche se si è improvvisamente paracadutati nel dorato mondo qatarino del Paris Saint Germain. Salvatore Sirigu, arrivando al Torino, è come se fosse tornato in un luogo magico della sua terra, riconoscendolo immediatamente. “la casa è piccola, ma il cuore è grande”, recita uno dei più antichi proverbi sardi, prefigurando molte assonanze con la storia granata. A volte, quando mi capita di ragionare di calcio e della sua storia, con la mente rivivo una sorta di processo di memoria a rallentatore, e compiendo un percorso a ritroso nel tempo rivengono in mente tutta una serie di aneddoti su uno sport che amo e di cui ho imparato a riconoscerne stimmate culturali e spirituali che sovente, nella nostra contemporaneità, vengono dimenticate in qualche cassetto o addirittura rimosse. Sono nato a Manchester in una famiglia di confessione cattolica, e la matrice religiosa non sarebbe poi così importante da sottolineare se non si stesse parlando, appunto, dell’Inghilterra dello scisma anglicano. In questo confronto/scontro religioso, non sono rimaste estranee molte storie di calcio del mio Paese, e nella rivalità tra United e City non è un particolare di poco conto come la casa dei “Red Devils”(Old Trafford) si trovi nel “Metropolitan Borough” di Trafford, nel pieno cuore della diocesi di Salford, che comprende la maggior parte del territorio della “Greater Manchester”.
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C’è molto di cattolico nella tifoseria dello United, perché la maggior parte dei mancuniani di fede cattolica(tra le comunità più numerose d’Inghilterra), è proprio a Salford che risiede. I tifosi del City, i “Citizens”, pur avendo visto nella storia la loro squadra vincere meno degli acerrimi rivali dello United, hanno sempre avuto l’orgoglio di presidiare il centro della città mancuniana (Greater Manchester è considerata la provincia), dove un tempo risiedeva la working class, che aveva una flebile frequentazione con la Chiesa Anglicana e un solido rapporto con le “Union”, i tenaci sindacati inglesi che proprio a Manchester, nel 1868, videro il primo serio tentativo di darsi un’organizzazione nazionale. Questo contesto politico/religioso, a mio parere, ha reso i caratteri dei due club completamente differenti. E’ nota, sempre per le stesse motivazioni politiche/religiose dei mancuniani, la rivalità a Glasgow tra Celtic e Rangers. Il contenzioso tra il West Ham e il Millwall ha invece le sue radici nello sciopero generale dei portuali del 1926. I portuali di fede West Ham vi aderirono, mentre quelli del Millwall Docks lo boicottarono, dando inizio ad una rivalità tutt’ora in fieri. Il contrasto tra Barcellona e Real Madrid è noto, e non solo perché rappresentano la Catalogna e la Castiglia, ma anche perché i catalani hanno sempre accusato i madridisti di essere stata la squadra protetta dal dittatore Francisco Franco. E il ricordo della guerra civile spagnola, da quelle parti, rimane ancora con delle ferite molto aperte. Ho fatto solo alcuni esempi di rivalità calcistiche(molte altre ce ne sarebbero da fare), e di come queste siano qualcosa venutesi a formare nel contesto socio/culturale delle comunità, dando allo sport del calcio un carattere unico ed irripetibile nel panorama degli sport: un carattere identitario. Di ciò ha parlato Sirigu, nelle due interviste rilasciate in tempi e luoghi diversi, quando si è riferito allo spirito che anima la società granata. Una perla rara, il portiere del Toro, in questi tempi dove procuratori e loro assistiti sono pronti ad ogni capriola pur di aumentare i loro ingaggi e fatturati. Ed è un monito involontario per chi detiene o vuole provare a detenere le proprietà di club calcistici. Essere a capo di alcuni club, e purtroppo tra essi non c’è più il mio United da quando è stato fagocitato dalla famiglia Glazer, vuol dire detenere le chiavi di una storia. Con essa, e con il rispetto di essa, bisogna per forza fare i conti. Continuando a citare Sirigu, si può notare come il portiere non si sia dimenticato di ricordare di come il Torino rappresenti qualcosa d’importante per l’Italia, quindi non solo per i suoi tifosi ma per un’intera comunità nazionale. E questo passaggio delle dichiarazioni dell’atleta azzurro fa capire il “senso” di una storia che in questo momento si trova completamente nelle mani di Urbano Cairo.
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Non tocca certo a me stabilire quanto questo senso del Toro sia stato valorizzato dal proprietario di uno delle più importanti aziende editoriale italiane, ma non si possono nascondere grandi tratti di scetticismo e malumore che ormai da tempo serpeggiano tra i tifosi della squadra che fu di Valentino Mazzola. Ma in un’interessante intervista rilasciata pochi giorni fa al “Foglio”, da tutti i commentatori considerata il manifesto politico dell’imprenditore alessandrino, c’è un passaggio che forse dovrebbe far riflettere: “progettavo la scalata a Rcs da dieci anni senza farne mai parola con nessuno, nell’assoluto riserbo. Un giorno l’ho realizzata. I sogni non si svelano in anticipo: si mettono in pratica”. Se questo aneddoto corrisponde al vero, e ad oggi non ho nessun motivo per dubitarne, allora ci troviamo di fronte ad un aspetto dell’agire del presidente del Torino assai interessante, e forse gravido di promesse per combattere le inquietudini dei tifosi del Toro. Da cui discende però una conseguente e fondamentale domanda: il Torino Calcio, per Cairo, era un sogno da realizzare come la scalata a Rcs? Quesito al quale non proverò nemmeno per un secondo a rispondere, perché ovviamente non mi trovo nella testa del presidente del Torino. Però, sempre nell’intervista al Foglio, Cairo ha detto chiaramente cosa serve all’Italia, “un capo con una strategia e una visione per il futuro”. Parla solo dell’Italia? Parla anche delle sue aziende? Parla anche del Toro? Difficile capirlo, solo il tempo potrà raccontarlo. Per il momento, sperando di potermi permettere un modesto consiglio, esorterei Cairo a tenere da conto Salvatore Sirigu, perché in una visione strategica del Toro che verrà ho idea possa diventare una risorsa imprescindibile. E non solo come giocatore. Uno che si preoccupa di sottolineare a “France Football” come lo spirito del Toro non sia un concetto astratto, dovrebbe avere anche un futuro da dirigente del Torino calcio. Uno così, quando va al Filadelfia, è capace di coglierne ogni respiro proveniente dal passato, per poi porgerlo nel presente. Ho la sensazione che questo giovane uomo darà tanto alla causa granata, e non tanto perché farà vincere (quello si spera, ovviamente), ma perché saprà continuamente far ricordare perché i tifosi del Toro hanno scelto proprio di essere del Toro. Uno così, egregio presidente Cairo, sarà la sua “Linea del Piave” e non andrà perso per nessuna ragione al mondo. Le sue parole mi hanno ricordato la mia gioventù a Salford, e i motivi per cui un giorno si abbraccia l’amore per una squadra di calcio. Inoltre mi ha donato ottimismo: non tutti i calciatori, fortunatamente, sono uguali nella ricerca di un ingaggio. Lo guardo nella solitudine della sua porta e mi sovvengono le belle parole di Grazia Deledda: “siamo il regno interrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi”. Nel fondo della porta difesa da Sirigu ci sono i sogni, i timori, le storie di tutti i tifosi del Toro. E lui, ammiccando, li rassicura: “tranquilli, che siete in buone mani”.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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