Non c’è nulla di più forte degli oceani, delle montagne e della motivazione. Lo diceva Winston Churchill, uno che di tenacia e obiettivi se ne intendeva. A certi livelli, non si può concedere nulla: se te la devi vedere con qualcuno che si gioca la vita e non sei al top dell’autostima e della voglia di crederci, perdi. Sempre.
columnist
Nessun dramma ma nessun trionfalismo
Ieri siamo naufragati a Empoli perché nella testa dei nostri giocatori, sin da mercoledì sera con la vittoria della Lazio in Coppa Italia, si era insinuato un tarlo invincibile: la rassegnazione.
Nel dialogo interno di ognuno dei nostri ragazzi, spenta la tivù, si era fatto largo un pensiero mortale: “E anche se vincessimo? Ormai non c’è più nulla da fare…. Tanto il Milan vincerà l’ultima in casa della Spal, tanto la Roma non perderà a Sassuolo, tanto… è finita”.
All’interno della nostra mente esistono molti personaggi; per comodità scegliamone due: il terrorista e il campione. Il primo fa di tutto per danneggiarci e sabotarci; il secondo ci incita al miglioramento continuo e ambisce al successo. Il primo fa dipendere il nostro umore e le nostre prestazioni dal giudizio altrui e dall’ambiente esterno; il secondo ci consente di focalizzarsi soltanto su noi stessi, sui nostri punti di forza e su ciò che è sotto il nostro controllo.
Nella mente dei ragazzi, ieri e nei giorni successivi alla finale di Coppa Italia, ha vinto il terrorista, ha vinto la logica del sabotaggio. E’ stato sufficiente vedere i primi trenta minuti per capirlo: squadra contratta, passaggi sbagliati (Izzo, uno dei giocatori più positivi della stagione, che si presenta con due cross completamente sballati, l’incredibile idiozia commessa da Ola Aina, il grande Sirigu stranamente poco reattivo sulla ciabattata di Acquah ecc.), testa poco ancorata al “qui e ora”, scarsa aggressività e gambe legnose. E dopo il gol del pareggio idem, squadra all’arrembaggio con furia dilettantistica, quasi che invece del “gol vittoria” stessimo cercando il nemico alla ricerca del suicidio e dell’abbreviazione dell’agonia.
Quando pensi che è finita, è finita davvero. Si tratta della cosiddetta “profezia autoavverante”. Pensi che non c’è più nulla fare? E allora non ci sarà più nulla da fare perché, anche se consciamente pensi che te la giocherai fino alla fine, il tuo inconscio avrà già trasmesso al corpo i segnali di resa e, senza accorgertene, sarai meno determinato nei contrasti, meno feroce nella gestione della palla, meno “attivato” dal punto di vista della connessione psicofisica.
Soltanto le grandi squadre riescono a isolarsi completamente dal mondo esterno e rimanere agganciate a sé stesse fino all’ultimo secondo. Il Liverpool capace di ribaltare lo 0-3 di Barcellona e il Tottenham capace di qualificarsi alla finale di Champions all’ultimo assalto sono l’esempio più bello di come la capacità di mantenere la motivazione e la tensione fino all’ultimo secondo possano generare miracoli. Non si tratta di miracoli divini, si tratta di capolavori mentali. Il segreto? Rimanere focalizzati sulla propria corsa, riuscire a chiudersi nel carrarmato dei propri punti di forza e della fiducia in sé stessi e fare finta che gli altri non esistano, pensare che gli avversari esterni sono contingenze, che l’unico vero nemico contro cui dobbiamo combattere è dentro di noi, è quel terrorista di cui scrivevo prima e a cui, troppo spesso, concediamo il comando delle operazioni.
La mia impressione, tuttavia, è che non si debba drammatizzare il fallimento di ieri, avvenuto a campionato compromesso. Le urgenze del Toro, a livello psicologico, sono altre, prime fra tutte l’incapacità di gestire i risultati e l’inadeguatezza ad affrontare per vincere le partite della vita, urgenze senz’altro figlie di quella sindrome da “perdenti” che si è impossessata di noi dopo la vittoria della Coppa Italia del 1993 e che la gestione Cairo (con obiettivi sportivi puntualmente falliti) non è ancora riuscita a guarire. Intendo dire; la vera prova di maturità l’abbiamo fallita a Venaria, quando contro dieci giocatori in ciabatte più Cristiano Ronaldo invece di continuare a giocare alla ricerca del secondo gol ci siamo messi a sparare palloni a caso paralizzati dalla paura. Grave perdere ieri, ma ancora più grave l’atteggiamento remissivo con cui, nel momento clou della stagione, abbiamo affrontato trasferte alla nostra portata come quelle di Firenze e Parma o lo scontro secco di Coppa Italia contro i viola. Non è vero che chi si accontenta gode; chi si accontenta rosica. Il discorso vale per tutti: tifosi, guida tecnica e società. Siamo stati meravigliosi a invadere Empoli, ma avrei evitato gli applausi scroscianti a fine partita. Applaudire anche le umiliazioni non è educativo, lascia trasparire il messaggio che va bene sempre e comunque, che comunque vada è stato un successo, che se vinciamo bene, se perdiamo pazienza.
Lo riempireste di complimenti un figlio che ha fatto una buona annata a scuola ma nel compito in classe decisivo per stabilire se sulla pagella finale il voto sarà 6 o 7 si becca un 3? Non credo. Avrei rimandato gli applausi a domenica prossima, a dopo la partita con la Lazio, magari dopo una bella vittoria che certificherà il settimo posto e una stagione che, finalmente, ci ha visto di nuovo protagonisti.
Il discorso vale per noi, dicevamo, ma anche per Mazzarri (che, a costo di violentarsi, il prossimo anno dovrà lavorare per trasmettere alla squadra, sia sul piano tattico sia sul piano mentale, una maggiore vocazione a vincere e offendere) e Cairo. Evitiamo toni trionfalistici, lasciamo perdere aggettivi come “strepitosa” e “grande” per definire l’annata e vediamo di assumere un atteggiamento realistico. In questo momento, essere realisti vuole dire analizzare con calma gli aspetti positivi e negativi della stagione, ripartire dalle ottime basi che abbiamo posto quest’anno senza enfatizzare l’importanza di un settimo posto o del record di punti in un’era in cui siamo stati poco più che una comparsa. Essere realisti significa rendersi conto che da 25 anni a questa parte non riusciamo ad arrivare nemmeno sesti (impresa riuscita anche a squadre come Chievo, Livorno, Parma, Sassuolo, Genoa e Udinese) e allo stesso tempo che mai come oggi possiamo contare su uno zoccolo duro di giocatori che, se mantenuto, ci potrà dare grosse soddisfazioni; significa osservare che la strada della riscossa, quest’anno intrapresa, è ancora da scrivere ma che finalmente tutti gli attori presenti sulla scena (tifosi, squadra, mister, società) sembrano essersi ricompattati attorno a un ideale chiamato Toro.
Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista. È l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata
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