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columnist
Devo essere sincero: non mi sono strappato le vesti per la partenza di Ogbonna, nè mi è passato per l'anticamera del cervello di mettere a ferro e fuoco la città come accadde ai tempi della cessione di Lentini al Milan. Però non mi ha lasciato indifferente il fatto che dopo dieci anni di Toro il buon Angelone abbia fatto il salto della quaglia e si sia accasato in quel di Venaria. Tu quoque, Brute, fili mi? Già perchè se da Aldo Serena negli anni 80 ce lo si poteva aspettare (ed infatti ripeté la cosa a Milano qualche anno dopo) e se in fondo Pessotto era transitato un solo anno in maglia granata, da un ragazzo cresciuto nel Toro la cosa non può che lasciare tanto amaro in bocca. Perchè, diciamocelo francamente, forse è vero che non c'era la fila per comprare Ogbonna alle cifre richieste da Cairo, ma quello che ha pesato molto nella trattativa è stata comunque la volontà del giocatore. Sì, la volontà del giocatore di accasarsi alla Juve.
E' vero che un precedente c'era già stato (forse ancora più grave) all'epoca del fallimento di Cimminelli, quando Balzaretti per 'motivi familiari' pensò bene dopo aver fatto dai pulcini al capitano della prima squadra di scegliere la Juve, ma sono cose a cui non puoi comunque farci l'abitudine, neanche se ci sei già passato. Da tifoso granata vivi pensando che chi gioca con la maglia del Toro capisca o percepisca tutto quello che c'è dietro e poi vedi che c'è gente a cui, detto crudamente, non gliene frega niente. E passi per chi viene da fuori, magari solo di transito per una stagione o due. Ma chi diventa professionista con quella maglia addosso non può non sapere, non può non aver respirato quell'aria, assorbito la magia, la storia, la passione...
Pertanto, terminata la lunghissima trattativa nella quale Cairo ha avuto il merito di ottenere tutto quello che poteva ottenere (e non è poco di questi tempi soprattutto pensando a chi era la controparte...), giunta la firma sul contratto e fatti i primi autografi agli smaniosi bambini bianconeri (sigh...), ho aspettato con ansia le parole di Ogbonna nella sua prima conferenza stampa da bianconero. Lo aspettavo al varco, lo ammetto, perchè sapevo che era inevitabile che fosse chiamato a fornire spiegazioni sulla sua scelta. E l'intelligente Angelo (perchè c'è da dire che è un ragazzo con qualità intellettive superiori alla media della categoria della quale fa parte) ha estratto dal cilindro la parola magica: ambizione. "Amo il calcio e il calcio si fa ovunque. Non sono un traditore, sono un professionista, ambisco al top. E il top in Italia è la Juve". Queste in sintesi le sue parole. Che poi casualmente sono state più o meno le stesse che ha usato Cavani per presentarsi al Paris Saint Germain.
Tra i due affari le analogie sono molte: cambia di fatto solo la proporzione che è di uno a cinque, sia nella cifra pagata ai club, che nello stipendio corrisposto al calciatore. Il ragionamento fatto da Ogbonna ( e Cavani) quindi fila liscio e molti diranno che è giusto perchè il calcio è cambiato, ormai sono tutti mercenari ed in effetti entrambi i giocatori hanno scelto per fare un salto di qualità.
Io mi limito a mettere in dubbio il concetto di ambizione da loro espresso e quello che si identifica comunemente usando quel termine. Riconosco che tutti, e i calciatori non sono da meno, lavorano per guadagnare il più possibile e tutti ambiscono ad avere il meglio per sè e, per chi ce l'ha, per la propria famiglia. Quello che mi lascia perplesso è che ci sono lavori, tipo il calciatore, dove l'aspetto emotivo ha comunque un suo peso e dove la scala delle soddisfazioni professionali è molto relativa. Per un operaio o per un manager la differenza tra un'azienda e un'altra spesso si nota solo nel peso della busta paga. Ma se uno di loro può permettersi valutazioni che vanno al di là del semplice stipendio, certamente terrà conto anche del "clima" aziendale in cui lavorano: quindi vado (o resto) dove mi trovo meglio per l'ambiente che mi circonda (colleghi, capi, stress lavorativo, ecc.). Infine c'è l'ambizione: lavorare nella migliore azienda che ci sia sul mercato, non vuol dire automaticamente essere al top. Non è meglio essere il capo di una piccola-media azienda che il numero 15 di una multinazionale? Tutto è relativo. In fondo nel Toro Ogbonna guadagnava due volte quello che guadagna un manager di una multinazionale con grandi responsabilità, ne era l'uomo simbolo (o uno dei) ed aveva anche raggiunto in pianta stabile la Nazionale nell'anno prima dei Mondiali. Non male, no? Ma anche qui si può affermare che tutto è relativo.
Stando così le cose, mi piacerebbe quindi chiedere a Ogbonna: non è un tipo di ambizione anche essere il capitano del Torino, trascorrervi gran parte (o tutta) la carriera, magari raggiungere con questa maglia traguardi non eccelsi, ma da assoluto protagonista e vivere il resto della vita amato dai tifosi (chiedere a Pulici per info...) sapendo di aver fatto la storia di una gloriosa società di calcio italiana? E analoga domanda la potrebbe fare un napoletano qualsiasi a Cavani.
Il problema è che per quanto uno non giuri amore eterno alla maglia e non si senta un traditore, alla fine resta in tutta onestà difficile non pensare che in fondo, in fondo, sia stata tutta una semplice e mera questione di soldi. Ecco allora che la nobile ambizione si ritrova a braccetto con la remunerazione ed una diventa la giustificazione dell'altra. Ed allora aveva ragione quel tizio che diceva che in fondo andare con una bella donna è facile per chiunque. Più difficile è stare con una normale, amarla per tutta la vita e pensare sinceramente che sia la donna più bella del mondo.
Ci vuole cuore e non c'è stipendio che lo possa comprare.
Alessandro Costantino
Twitter: AleCostantino74
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