Per affrontare due derby in due giorni, bisogna averci il fisico. Il fisico del tifoso granata che regge 180 minuti contro la Juve e che sopravvive, senza defibrillatore. Partite intense, quella della Primavera al Filadelfia come quella della prima squadra al Grande Torino. Partite giocate contro avversari più forti, c’è poco da fare. Partite che partono da uno svantaggio base di almeno uno a quattro, in termini di investimenti nei bilanci delle società di appartenenza, e che proprio per questo hanno bisogno di essere giocate dal Toro con il massimo del desiderio, del sentimento coltivato nello spogliatoio, del trasporto verso il mister, dello slancio agonistico, dell’impeto fisico e con qualcosa a cui non si può rinunciare mai: il favore delle stelle. Altrimenti detto, culo. E questo non si è visto. Che novità.
columnist
Pane, derby e fantasia
Avvilente assistere all’insulto di Leandro Fernades. A diciotto anni ha il privilegio di giocare come professionista, il team Juve gli ha insegnato come stare in campo, ma ha omesso di insegnargli come stare al mondo. Ben venga per lui e per la sua crescita personale, la sanzione. Ben vengano le scuse pubbliche. Si è giustificato dicendo che era una reazione agli insulti ricevuti durante la partita, e vista l’età, in qualche modo posso capire la sua rabbia, ma quando porto mio figlio allo stadio, lo faccio perché credo che lo sport non sia una gara a chi è più ignorante, volgare o offensivo. Le risposte dello sport sono le prestazioni, la passione e i risultati, chi usa altri argomenti semplicemente si sta sbagliando, non sta parlando di sport.
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Quando si indossa la maglia di una società si finisce col rappresentare molto di più che le proprie idee e il proprio corpo, è una lusinghiera responsabilità, un oneroso onore. Se la Juve è un dito medio alzato, mi spiace per lei. La stessa cosa che ho risposto al tifoso che ostentava la sua bianconerità nella coda per entrare ai distinti: mi spiace per te. Ma mi spiace per me, quando vedo che lo stadio non lo occupano tutto i granata, gli altri hanno spazio ed entrano, per forza. Doppio derby anomalo pure nell’arbitraggio. In Primavera l’arbitro annulla un gol regolare, il resto lo decide a caso, secondo la nebbia e l’ispirazione del momento. Orsato, invece, è stato british dal primo al novantesimo minuto, permettendo un gioco fisico da entrambe le parti. Prima di dare l’ok al gol, aspetta la VAR. Che piacevole sensazione di imparzialità, così nuova da provare.
Comunque, la settimana dei derby giocati è passata. Questa, è quella di Gigi Meroni, che l’ultimo derby concessogli lo interpretò con il suo indimenticabile marchio di fabbrica, la fantasia. Il dribbling più importante, in corso Re Umberto, non gli riuscì, perse la vita qualche giorno prima di quel Toro-Juve del ‘67, eppure tutti lo avvertirono fortemente in campo durante la partita, stava nel profumo della striscia di fiori sulla fascia destra, il prato suo regno; stava saldo nella volontà di Combin di trasformare in risultato quanto Gigi stesso aveva profetizzato: vinciamo almeno tre a zero; stava nei tifosi che ancora non avevano elaborato un modo per crederci, e lo cercavano in campo. Lo vedevano.
Festeggiamolo in questi giorni Gigi, sabato ricorre il suo compleanno. La sua morte la conosciamo fin troppo bene, il bambino che il 24 febbraio del 1943 nasceva in un’Italia ancora in guerra, meno. Un’Italia che Gigi avrebbe scandalizzato ma da cui si sarebbe fatto amare, tanto. Eccolo, un bambino che viene al mondo con un dono smisurato nell’animo: la fantasia. Luigino, destinato a svolazzare sui giorni della sua vita con i colori stravaganti, l’eleganza e la leggerezza di una farfalla. Un bambino che non avrà bisogno di un fisico possente ma che userà la fantasia, per convincere il pallone a seguire traiettorie innaturali, stupefacenti. La fantasia che lo farà innamorare dell’arte, del disegno, della moda. La fantasia di scegliere la donna più difficile da amare e di trovare ogni giorno un modo diverso per farlo. La fantasia di portare un taglio di capelli deprecato dai più, in cui lui si riconosceva. E le calze abbassate, la barba incolta, i pantaloni strappati. La fantasia di essere se stesso nonostante gli altri, e di non risparmiarsi mai, di mettersi per intero in tutte le cose da vivere, soprattutto in campo.
Il Toro è il pane di cui abbiamo sempre fame, non c’è intenzione di dieta che regga, alla fine torniamo a mangiare.
Il derby è la sfida per eccellenza che siamo chiamati a interpretare, no, non ci possiamo sottrare, perché in qualche modo ci definisce. Abbiamo deciso così, tanti anni fa.
La fantasia, riempie di sempre nuove risposte lo striscione “Non resisto lontano da te”, quello affisso in curva Primavera che domenica continuavo a cercare con lo sguardo per leggerlo. E rileggerlo. Leggerlo ancora una volta e trovarci qualcosa di nuovo che da sempre è Toro, la fantasia.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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