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columnist
“Là dove non siamo, si sta bene”
Anton Cechov
Era un inverno abbastanza rigido quello del 1937, ma invero per i britannici non era il cruccio più importante, o almeno importante quanto ai fenomeni di nebbia densa che stavano martoriando da settimane l’Inghilterra. Il 26 dicembre 1937 a Stamford Bridge, la casa del Chelsea, si giocava una partita del turno del “Boxing Day”, la tradizionale festa di Santo Stefano in cui gli inglesi più abbienti, sin da quando fu istituita ufficialmente nel 1871 dal governo della Corona(anche se c’è chi sostiene che questa usanza si perda nella notte dei tempi. Ma affidiamo questo dettaglio al lavoro degli storici), usano donare pacchi regalo alle persone meno fortunate. Quel 26 dicembre del 1937 Chelsea e Charlton Athletic decisero di darsi battaglia, nonostante la fitta nebbia avrebbe consigliato di andare a bere birra o a consumare un tea caldo in luoghi più riparati di un campo di calcio. In quel periodo il Charlton era una delle squadre più quotate della massima serie calcistica inglese, per cui fu del tutto normale per Sam Bertram, portiere dei biancorossi, assistere alla ripartenza dei suoi compagni all’attacco dell’area del Chelsea e, a causa della nebbia, perderli per trenta minuti di vista.
“Eravamo una delle squadre top, in quel momento,-raccontò in seguito Bertram-e vidi sempre meno figure intorno a me, dato che attaccavamo costantemente. Camminavo su e giù lungo la linea di porta, felice dell’idea che il Chelsea era bloccato nella propria metà campo. Ovviamente, però, non stavamo mettendo la palla in rete, dato che nessuno tornava a schierarsi come si fa dopo aver segnato un goal. Con il passare del tempo feci qualche passo in avanti, fino al limite dell’area, cercando di scrutare qualcosa attraverso la nebbia diventata sempre più densa. Non riuscivo a vedere niente: la difesa del Chelsea era chiaramente in difficoltà”. In realtà non c’era nessun Chelsea in difficoltà, perché l’incontro era stato sospeso, a causa della evidente condizione d’invisibilità, da un quarto d’ora. Fu un poliziotto, sbucato improvvisamente dalla nebbia, ad avvertire della situazione il povero Bertram, e a metterlo al corrente che ormai il campo era completamente vuoto.
Chissà quanti pensieri in quella famosa mezz’ora devono essere passati per l’allora portiere del Charlton, chissà quale partita deve essersi giocata da solo. E chissà cosa provò quando, rientrando negli spogliatoi, trovò i suoi compagni di squadra già rimessisi in abiti civili e pronti ad andare a fare baldoria in qualche pub londinese. Con la vista offuscata dalla nebbia, per sua stessa ammissione, aveva immaginato una partita trionfale della sua squadra. L’illusione, provocata dalla nebbia, di una partita trionfale della sua squadra lo aveva fatto sentire bene. Sicuro di sé e del suo avvenire. Ma poi ci fu il repentino ritorno alla realtà a comunicargli bruscamente che non stava vivendo nessuna partita, che tutte le sue speranze di una cavalcata trionfale contro il Chelsea erano state, appunto, solo speranze. Anzi, miraggi. Comprendere Sam Bertram e la sua nebbia, lo confesso, è stato facile, perchè a tratti mi sembra di vivere una fase della mia vita in cui qualcuno o qualcosa ha deciso, come fece con Bertram quel poliziotto del boxing day del 1937, di avvertirmi che ero immerso nella nebbia più totale. Che il gioco come lo conoscevo era finito, che era ora di addentrarsi nel futuro. Ho sempre ritenuto il calcio uno sport comunitario, una di quelle rare cose senza tempo, perché fatto di sentimenti ed empatie eternamente uguali. In ciò credevo risiedesse il fascino di questo fantastico gioco. Ma negli ultimi anni, in cui mi sono occupato attivamente di calcio e delle sue problematiche, in più occasioni sono stato ripetutamente invitato ad abbandonare gli atteggiamenti tipici di chi vorrebbe vivere in un passato che non si evolva mai. Nel terzo millennio i tifosi non devono essere più chiamati tifosi, ma spettatori.
Questo perché il calcio del presente deve aprire al calcio del futuro la porta dell’intrattenimento. Qualcuno mi ha spiegato molto autorevolmente come l’amore e l’empatia siano stati dell’animo difficili da gestire, perché sono composti da sentimento e ragione e quindi inclini a complicare scenari. Per cui, non appena la nebbia si è diradata, il nuovo mondo spalancatosi davanti ai miei occhi era quello fondato sulla bellezza del “passatempo”, che ha il pregio di non convocare davanti a noi stessi la ragione, ma solo il piacere e, al massimo, il vizio, che del piacere è la sua perversione. Come non avevo capito niente, come ero ostinato a voler restare ancorato ad un passato ormai impossibile da sostenere. Come non avevo fatto a comprendere come il “Passatempo” sia la cosa più facile del mondo da gestire. Un momento ricavato nelle nostre giornate in cui è facile distrarsi nel piacere. Facile da gestire come modello di business assai remunerativo. Per rendere le cose ancora più facili e gestibili, dobbiamo compiere l’ultimo e importante passo: quelli di noi che erano tifosi e che oggi si sono evoluti in spettatori devono sforzarsi a configurarsi definitivamente come “clienti”. Solo così il futuro avrà il suo compimento. Un futuro rassicurante e privo di incertezze perché, nella logica del rapporto tra imprenditore e cliente, l’unico obiettivo da raggiungere è la spesa dei soldi e l’incasso dei soldi. In questo modo nessuno si fa male, tutti si divertono e la ruota della vita gira in perfetta armonia. L’unica controindicazione, come già detto, può essere solo l’irrompere del vizio.
Ma anche questo è perfettamente gestibile dal business, come la storia della nascita di Las Vegas insegna. Eh sì, fu una straordinaria intuizione di Bugsy “Cane Pazzo” Siegel, storico socio nel crimine di Lucky Luciano e Meyer Lansky, a posare “la prima pietra”(la costruzione dell’ hotel-casino Flamingo) di quella che rapidamente sarebbe diventata la più grande città del Nevada e l’approdo più famoso del mondo del passatempo ricreativo elevato a vizio. Tutto questo grazie ai finanziamenti delle più importanti famiglie criminali della East Coast. Ma queste sono solo sottigliezze notate nel periodo in cui, immerso nella nebbia, ero in attesa del futuro. Un periodo in cui, come Aristotele, ero convinto che una sola cosa è negata a Dio: disfare il passato. Per anni ho lottato per aumentare la consapevolezza dei tifosi nell’essere essi stessi i proprietari della loro squadra del cuore, un luogo dell’anima che sarebbe stata sempre casa loro e non in modo pro tempore. Ma proprio non avevo capito il futuro, perché quando si è ciechi non si riesce a cogliere nemmeno l’ovvio. Oggi c’è una squadra italiana, la Juventus, che capitalizza in borsa più del Monte dei Paschi di Siena, la terza banca italiana per numero di sportelli. E’ chiaro come un business del genere non possa essere lasciato in mano a degli sprovveduti, tipo i tifosi. I soldi sono una cosa seria e tutto il resto è conversazione, diceva con l’aria di chi ha capito come va il mondo il mitico Gordon Gekko nel film Wall Street di Oliver Stone. Uno scorgersi dal davanzale dell’esistenza, quello di Gekko, non privo di un qualche fondamento(ma quando ero nella nebbia come potevo capirlo?).
Quando un Paese come il Qatar, attraverso il ricco forziere del suo fondo sovrano, decide di investire massicciamente nel calcio europeo(sono molteplici le sue proprietà di club calcistici e le sue sponsorizzazioni nei principali campionati europei) è inutile chiedersi perché lo faccia: in fondo sta finanziando lo spettacolo più amato da noi europei. Perché perdere tempo a chiedersi cosa il Qatar, prima o poi, chiederà in cambio di tutti questi soldi stanziati? Meglio chiudere gli occhi e non pensare alle controindicazioni. Perché è vero che siamo nell’epoca in cui pensare al futuro è un imperativo categorico, ma è meglio non esagerare troppo in tale pratica. Piuttosto lasciamo pensare a chi sa pensare, a chi con i soldi e il potere ha confidenza. A chi sa minimizzare con abilità il doping finanziario a cui una squadra come il Paris Saint Germain sta costringendo tutto il calcio continentale e mondiale, obbligando la Fifa a ratificare una finale di Coppa d’Asia vinta dalla nazionale del Qatar, dove più della metà dei suoi giocatori non sono qatarini. Gente come Gaetano Miccichè sono le persone giuste a gestire questo radioso futuro, dove la Serie C italiana sta morendo per mancanza di fondi e di regole certe. Ma che importa della Serie C? Lasciamola pure gestire a due incompetenti come Francesco Ghirelli e Cristiana Capotondi, tanto la C non deve generare clienti, ma solo clientele e affari di piccolo cabotaggio. La Serie C ormai è il non luogo del calcio del futuro, dove è giusto regni pressapochismo e dilettantismo.
Devo sforzarmi di accettare questo stato di cose, e accettare con serenità la critica di essere ingenuo e ancorato al passato. Ho proprio un curriculum vitae da ingenuo. Sono stato come Sam Bertram, immerso a lungo nella nebbia, dove ho immaginato una bellezza del gioco che non c’era e delle tradizioni ormai abbattute da tempo. Come Bertram sono stato soddisfatto e bravo ad immaginarle così bene, da farmele apparire vere. Ma ora basta: voglio pensare solo al futuro. Spero solo, prima o poi, di non giungere alla conclusione di Pino Caruso: “il passato non mi preoccupa: i danni che doveva fare li ha fatti; mi preoccupa il futuro, che li deve ancora fare”.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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