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columnist
Sabato 3 febbraio, mentre i giocatori del Manchester United e dell’Huddersfield Town stavano attendendo il fischio d’inizio della loro 26 esima giornata della Premier League, nella “NorthStand” dell'Old Trafford è stato esposto uno striscione che ha fatto venire un brivido al mondo intero: “we’ll never die” (non moriremo mai). Sopra la scritta c’era la foto di quelli che, dopo la tragedia di Monaco, saranno per sempre ricordati come i “Busby Babes”. Solo chi ama davvero (e i tifosi amano davvero) può far parlare il passato come se fosse ancora presente. Perché per ogni tifoso il passato è presente, e il presente è futuro. Ero solo un bambino quando mio padre , attonito, mi comunicò quello che era successo su un’anonima pista, fangosa e innevata, dell’aeroporto di Monaco di Baviera.
Sette ragazzi scoperti da Jimmy Murphy (principale collaboratore di Matt Busby e allenatore in seconda del Manchester United), erano morti all’istante nel decollo fallito dell’Airspeed Ambassador che avrebbe dovuto riportarli a Manchester. Al suo grande amico Matt Busby, era stata data per ben due volte l’estrema unzione. Un ottavo di quei ragazzi scoperti e cresciuti da Jimmy Murphy, Duncan Edwards, sarebbe morto, non senza lottare come un leone (“dottore deve rimettermi in piedi. La prossima settimana devo giocare in First Division”, era stata una delle ultime frasi dette da questo ragazzo che stava apprestandosi a diventare il più grande calciatore inglese della storia), due settimane più tardi. Mio padre Bob conosceva bene questi ragazzi, perchè ogni tanto frequentavano le sale del circuito di sale cinematografiche che gestiva a Manchester. Capitava che Bob dovesse dare ordine di fermare la proiezione del film, quando i giocatori dello United entravano nella sala buia del cinema. Tanto ormai più nessuno ne seguiva la trama, perché tutti volevano dare un saluto o una stretta di mano a quei giovani eroi.
La Manchester di quegli anni faceva parte di un Inghilterra orgogliosa per essersi opposta alla Germania nazista, ma stremata da una Seconda Guerra Mondiale vinta con un lascito di debiti enormi a causa delle spese belliche e degli ingenti investimenti per la ricostruzione del Paese. Inoltre, con la fine dell’era coloniale e l’emergere del petrolio come principale fonte d’energia, l’economia della città, fatta di industria tessile e miniere di carbon fossile, cominciò a declinare in cicli di alti e bassi terribili. Presto l’opera che Matt Busby metteva periodicamente in scena all’Old Trafford, fu per i mancuniani (gli abitanti di Manchester) motivo di sollievo e di speranza. In quel che poi si rivelerà, almeno per me e i tifosi dello United, un terribile 1958, anche la città di Philadelphia stava attraversando una feroce crisi economica (la fine della guerra era coincisa con un brusco calo della domanda del ferro e del carbone, decretandone un destino alla Manchester). Gli Eagles, la squadra di football della città dove erano state redatte la dichiarazione d’indipendenza e la costituzione statunitense, stavano risentendo economicamente della crisi e avevano da qualche anno perso per infortunio Steve Van Buren, il più grande giocatore della loro storia. La vicinanza con New York, città sempre più in espansione cosmopolita, non prometteva certo un luminoso futuro di vittorie per questa città fondata dai quaccheri e che aveva dedicato il suo nome all’amore fraterno (il significato greco di Filadelfia).
Insomma, dopo la tragedia di Monaco, la crisi economica, l’infortunio di Van Buren, il destino dello United e degli Eagles sembrava quello di eterni underdogs. Ma (c’è sempre un “ma” in ogni buona storia che si rispetti) Matt Busby sopravvive alle due estreme unzioni e riprende il suo lavoro allo United. L’inizio, fu una prova terribile (“quando sono entrato all’Old Trafford-raccontò in seguito Busby-, tra le decine migliaia di tifosi, non trovavo il coraggio di guardare. Sapevo che i fantasmi dei miei ragazzi sarebbero stati lì ad attendermi”); bisognava ricreare la base di una squadra vincente, bisognava trovare dei nuovi Busby Babes (da affiancare al sopravissuto Boby Charlton). Sir Matt, più di una volta, sente di non poter reggere il peso del dolore, più di una volta medita di ritirarsi dal calcio. Il senso di colpa che lo accompagnerà per tutta la vita, lo spingerà ad essere presente ad ogni cerimonia, ad ogni piccolo ricordo o commemorazione dei suoi ragazzi perduti. L’allenatore scozzese, nei primi anni dopo la tragedia di Monaco, non sembra più lo stesso.
Ma Manchester, e la gente di Manchester, sa aspettare. E’ gente tenace, la mia gente. Dopo la guerra i tifosi dello United non si erano fatti scoraggiare nemmeno dall’Old Trafford distrutto dai bombardamenti. Sapevano che un giorno sarebbe stato ricostruito. Sapevano che un giorno lo United sarebbe tornato a giocare lì(quante cose in comune con i tifosi del Toro e il loro Filadelfia. L’amore dei tifosi è da sempre la vera unità di misura del calcio). Il punto di svolta di Matt Busby si presenta un giorno sotto forma di un telegramma, giunto direttamente da Belfast. “Credo di averti trovato un genio”, recitava il testo scritto da Bob Bishop, osservatore dello United in Irlanda del Nord. Il genio, sregolato, era quello di George Best, uno dei più straordinari talenti che abbiano mai calcato un campo di calcio. Best è come un raggio di sole che ha il potere di riportare la luce nell’anima di Sir Matt, è come un miracolo che si abbatte improvvisamente nella vita di una tra le più uggiose città del pianeta. Lo United prende a sognare in modo così sfrenato, che un euforico Bobby Charlton un giorno arriva a definire l’Old Trafford “Theatre of Dreams” (il teatro dei sogni). Lo United torna a vincere la First Division e, nel 1968, alzerà la sua prima Coppa dei Campioni. La prima Coppa dei Campioni vinta da una squadra inglese.
Dieci anni dopo, nel 1978 e al culmine della loro depressione sportiva, gli Eagles di Philadelphia ingaggiano come allenatore Dick Vermeil e dopo dodici anni di guida tecnica del tecnico che era stato degli UCLA Bruins, partecipano, uscendo sconfitti, al loro primo Superbowl. Gli anni di Dick Vermeil furono gli anni della rinascita degli Eagles; ma per i tifosi della squadra la vittoria del Superbowl sembrava essere una cosa lontana. Praticamente irrealizzabile. Anche per Nick Foles, di professione quarterback, la carriera sembra ad un certo punto conclusa. Il ragazzo di Austin, rubato dal football al basket, sembra non aver mantenuto nessuna delle promesse di inizio carriera. Ormai è considerato da tutto il mondo del football un underdog. Deluso, vorrebbe addirittura smettere di giocare e dedicarsi, forse, ad essere in servizio permanente attivo per la sua fede religiosa. Ma per una di quelle curiose girandole della storia, degne di una sceneggiatura di un grande film, Foles finisce come quarterback di riserva degli Eagles. Essere riserva non piace mai a nessuno; tutti vorrebbero giocare sempre. Ma Nick Foles ha una strana sensazione: sa che il suo momento arriverà.
Ad un certo punto della stagione Carson Wentz, il quarteback titolare degli Eagles, si infortuna e Foles prende il suo posto; un posto che conserverà fino al superbowl dello scorso 4 febbraio vinto contro i favoritissimi New England Patriots della leggenda Tom Brady (L’underdog Foles guida gli Eagles, la squadra considerata la più underdog della NFL). “Dedico questa vittoria alla gente di Philadelphia”; dice Foles alla fine della partita. Ed è una dedica piena di gratitudine e di rispetto, verso questa gente della Pennsylvania che intanto stava riempiendo le strade della loro città ubriacandosi di gioia. E’ stata pura poesia vedere Sylvester Stallone alzare le braccia al cielo, felice come un bambino, per la vittoria dei suoi sfavoritissimi Eagles. Le gente non dimentica e sa attendere. Ecco perché i tifosi dello United hanno ricordato ancora una volta i loro babes. Loro, un tempo, gli hanno regalato gioia. Gli Eagles magari non vinceranno più, ma i loro tifosi non dimenticheranno la gioia del 4 febbraio 2018. Ha detto una volta Eric Cantona: “forse il giorno in cui ho accarezzato la prima volta una palla il sole splendeva, le persone erano felici, e questo mi ha fatto venire voglia di giocare a calcio. Per tutta la mia vita, cercherò di catturare ancora una volta quell’istante”. I tifosi dell’Old Trafford e l’inaspettata vittoria degli Eagles mi hanno ricordato questo semplice pensiero di uno dei più grandi giocatori passati dal mio United. Speri, ecco perché continuiamo, nonostante i nostri dolori, a ricostruire. Sempre.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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