Prima che sia Troppo Tardy

Cairo e il valore del Toro: botta e risposta con l’esperto

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Puntata speciale di “Prima che sia Troppo Tardy”, la rubrica di Enrico Tardy. Oggi il nostro autore intervista Alessandro F. Giudice, manager e consulente aziendale che ha pubblicato “La Finanza del Goal” (McGraw-Hill, 2020)
Enrico Tardy
Enrico Tardy Columnist 

Puntata speciale di “Prima che sia Troppo Tardy”, la rubrica di Enrico Tardy. Oggi il nostro autore intervista Alessandro F. Giudice, manager e consulente aziendale che ha pubblicato “La Finanza del Goal” (McGraw-Hill, 2020). Scrive editoriali su calcio e finanza per Corriere dello Sport e Il Foglio. Con Enrico, Giudice discute soprattutto di temi relativi alla gestione finanziaria del Torino e al valore economico del club. Buona lettura.

Dott. Giudice, lei ha scritto un libro di successo dal titolo "la Finanza del Goal", quale è stata la spinta ad una pubblicazione così specifica ed approfondita sul mondo del calcio?

“Ho iniziato a notare, qualche anno, fa che si parlava di calcio sempre più per le implicazioni finanziarie, ma con un'approssimazione che denota scarsa pratica di certi concetti. Non solo dell'opinione pubblica (cosa che sarebbe anche normale) ma degli addetti ai lavori. Oggi la qualità del dibattito è leggermente migliorata, ma allora si parlava disinvoltamente, ad esempio, di plusvalenze confondendo però ricavi con entrate di cassa, debito con perdite (anche oggi capita di leggere queste cose). Ho pensato di scrivere una guida per maneggiare meglio questi concetti e ho tentato di presentare il calcio da un'altra angolazione: quella della creazione (o distruzione) di valore economico”.

Venendo a trattare temi cari a noi tifosi granata, che idea si è fatto sul Torino FC da un punto di vista economico-finanziario?

“È una società gestita con attenzione, non ha debito, ha ottenuto risultati economici decorosi ma sempre col freno a mano piuttosto tirato. Penso che il bacino di utenza sia piuttosto limitato e che non si sia fatto abbastanza per allargarlo promuovendone il brand soprattutto con una strategia digitale”.

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Ci spiega, per noi non addetti ai lavori cosa significa che il Toro non ha debito?

“Per debito finanziario si intende l’esposizione verso banche e altri finanziatori, al netto della cassa disponibile. Non si conta il debito, di natura commerciale, verso i fornitori perché quello fa parte del ciclo operativo dell’azienda. Nell’ultimo bilancio il Torino ha un debito finanziario netto di soli 2,2 milioni, davvero esiguo. L’anno prima aveva debito negativo (cioè più cassa che debito) per 2 milioni. Altra cosa è il debito verso altri club per il mercato, che va in genere confrontato con il credito analogo. Anche in questo caso l’esposizione del Toro è molto contenuta e comunque sembra non avere carattere finanziario. Nell’ultimo bilancio spunta una linea bancaria da 30 milioni ma c’era anche cassa per 27,8 quindi credo sia una linea di credito “prudenziale”.

La struttura snella con costi proporzionati può essere una virtù ma anche un limite, sbaglio?

“Se non si fanno investimenti non si cresce. Che non significa necessariamente comprare il campione costoso. Oggi ci sono club piccoli, soprattutto in Francia, che seguono strategie più moderne. Il Toro è un brand glorioso, conosciuto comunque in tutto il mondo. Ha una storia da raccontare ma credo che lo faccia poco”.

Non puntare su strutture di proprietà (il Filadelfia, l'Olimpico Grande Torino, il Robaldo, sono tutti in locazione o concessione), non rende la società poco appetibile?

“Non sono un fan della proprietà fine a se stessa. Finanziariamente la proprietà deve generare un ritorno altrimenti è solo un capitale immobilizzato in modo improduttivo. Se investo 100 milioni in uno stadio finanziandolo con 100 milioni di debito il valore della società non aumenta di un centesimo. Se investo la stessa cifra nello stadio riuscendo a generare ritorni economici differenziali (perché porto più gente allo stadio o perché riesco a estrarre più valore da ogni presenza) il valore della società cresce”.

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Quale è una somma congrua che dovrebbe offrire un potenziale acquirente del Torino per interessare l'attuale proprietà?

“Questo dipende dalle aspettative della proprietà. Nel mio libro ho dedicato un paragrafo al Torino, illustrandone la struttura economica e azzardando qualche previsione sul post-covid. È impossibile valutare una società su due piedi, però - a spanne - il Torino aveva 85 milioni di ricavi pre-covid. Oggi i club valgono, all'incirca, 2 volte il fatturato e il Toro non ha debiti. Quindi lo collocherei grossolanamente in un range tra 150 e 200 milioni di valore”.

Puntare solo sul "valore calciatori" non è sintomo di assenza di prospettiva sul medio e lungo periodo?

“Lo è indubbiamente, se parliamo del singolo calciatore o di una rosa. Dal punto di vista del valore economico qualcuno ha detto che possedere una rosa è come avere 25 blocchi di ghiaccio che si sciolgono progressivamente. Il trucco è riuscire a venderli prima che diventino completamente acqua perché il valore di un calciatore (e quindi di una rosa) tende inevitabilmente a zero nel medio periodo. Questo per dire che il valore non può risiedere nella rosa in quanto tale, perché è un patrimonio effimero e volatile, ma nella capacità di generare valore con la gestione della rosa. Coniugando però i risultati economici con quelli sportivi, perché la soddisfazione di stakeholders come i tifosi è un patrimonio fondamentale che un club non deve mai disperdere”.

Una società come il Torino dovrebbe secondo Lei ampliare molto lo scouting giovanile per poi sacrificare qualche buon calciatore per far tornare i conti?

“È ciò che intendo quando parlo di generare valore con la gestione della rosa. Oggi lo scouting si fa in modo diverso: sempre meno con gli osservatori che scandagliano i campetti di periferia perché il mercato è immenso e bisognerebbe avere migliaia di osservatori. Oggi si usano i dati, si cerca un giocatore con certe caratteristiche precise indicate dall'area tecnica, si incrociano i requirements con i dati e ci si concentra su 3 o 4 potenziali candidati. Poi c'è anche un modo organizzato e scientifico di gestire il settore giovanile. Un tempo ormai lontano il Toro era all'avanguardia: basta guardare l'albo d'oro del Viareggio negli anni '80-'90”.

Vagnati Torino

Il Torino, come altre squadre, ha qualche difficoltà finanziaria (anche causa pandemia). È stato riportato che il Torino FC ha acceso due linee di credito con le banche. È un segnale di cui preoccuparsi?

“Le difficoltà le hanno tutti. In questo momento il Toro mi sembra una società piuttosto sana e non solo rispetto a quello che c'è in giro. Le linee di credito fanno parte della gestione di un'azienda. Più che altro bisogna vedere come si usa la finanza e per farne cosa, ma credo che il Toro abbia meno problemi di altri”.

Patrimonializzare la società con l'acquisizione di stadio, campi allenamento ecc. sarebbe una buona idea da un punto di vista economico-finanziario?

“Non ne sarei del tutto convinto. Se l'acquisizione di asset immobiliari fa parte di una strategia complessiva va bene, ma se resta un'iniziativa fine a se stessa non credo. Il Toro ha il suo stadio, cosa cambierebbe se fosse diverso il titolo giuridico?”

Secondo lei come mai investitori stranieri acquistano, Fiorentina, Parma, Bologna, Spezia, ma non il Torino?

“Questa è una buona domanda, ma non sappiamo se ci siano stati approcci con la proprietà. In ogni caso, credo che l'interesse di investitori stranieri (soprattutto americani) per i nostri club proseguirà. Acquistare un club italiano (o di altri campionati europei) ha un costo oggi frazionale rispetto a comprare una franchise sportiva americana. Soprattutto: negli USA i campionati sono leghe chiuse. O sei dentro o sei fuori e comprarne una che sia già dentro costa moltissimo. In Europa puoi comprare un club di seconda o terza fascia e portarlo ad alti livelli, come è accaduto con l'Atalanta o con il Lipsia in Germania. Gli americani scommettono su quello. Non tutti riusciranno a farcela, qualcuno si scotterà le dita, ma il rischio fa parte del business”.

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