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columnist
Chissà cosa muove una persona di intelligenza media, una domenica artica di marzo con tanto di pioggerella incessante che infradicia la giacca, verso lo stadio. Pranzo veloce per non perdere il pullman, il viaggio di andata, quello dei forse, magari, potremmo.
Domenica, in campo è sceso pochissimo Toro, qualcosina di più si è vista la Fiorentina, ma nulla che meriti di essere raccontato.
Domenica, la partita vera se la sono giocata i tifosi.
Quelli granata, che hanno percorso un intero giro di campo con metri di striscione tenuti dalle braccia alzate, che dopo dieci minuti avranno anche iniziato a pesare. A lettere cubitali la scritta: CIAO DAVIDE. Una sosta davanti alle panchine delle squadre, una davanti alla curva Primavera, un lungo fermo di fronte al settore ospiti che ha salutato il piccolo corteo con cori di gemellaggio e battimano. Nulla di meno di un abbraccio. Proseguendo, una sosta davanti ai distinti e poi gli ultras che infilano la porta di casa, quella della curva Maratona. Il giro di campo ha avuto una musica discreta ma costante di sottofondo, gli applausi.
I tifosi granata hanno scelto di far veicolare il proprio dissenso per il bilancio in perdita di punti dell’ultimo periodo, con il silenzio. Curve taciturne e immobili chiazzate di bandiere viola, le uniche a sventolare. Solo al tredicesimo i granata rompono il silenzio, “Davide Astori”, riecheggia al Grande Torino.
E poi di nuovo chiusi nel mutismo arrabbiato di chi ha messo su il broncio. Eppure, “Torino è stata, e resterà granata” , “Chi non salta b/n è” o “Toro! Toro! Toro!” sono risuonati molte volte nello stadio. Arrivavano dal settore di viola vestito. Simili a carezze scambiate da una parte all’altra del campo.
E i giocatori?
Stavano lì, in mezzo, sotto la pioggia. Fermi per manciate intere di minuti ad aspettare i verdetti del VAR sui tanti rigori in forse. Gioco sciocco, Mazzarri non ha scovato il barattolo del sale. Una di quelle partitelle che tocca sciropparsi a fine stagione, quando ormai i risultati sono appalesati e comunque si giochi, nulla cambia. E invece no, anche in quel tipo di partite è doveroso giocare al pieno delle energie disponibili. Per meritare il pubblico e dire grazie di essere presente. Per dare un senso alla parola squadra. Per la contentezza e la riconoscenza di fare uno dei più bei lavori al mondo.
E invece domenica ha giocato un torello impreciso come un miope senza occhiali che tira freccette. E dov’è il bersaglio? Boh. Passaggi affidati al cielo, accompagnati da un ‘che Dio ce la mandi buona’. Sirigu che il primo rigore lo evita, il secondo lo para e al terzo non ci può credere, un altro? Una Fiorentina con poco o niente da mettere in campo, salvo un’idea: giocare per il Capitano.
Davide Astori onnipresente nelle bandiere e nelle gole, che suscita una commozione che va oltre la morte di un ragazzo con tanti progetti in testa che una domenica mattina non si è svegliato più. Il bisogno di perpetuare. Il medicamento per chi resta e in qualche modo prova a reagire, perché ha bisogno di dare un senso a qualcosa che di senso non ne ha. Solidarietà. Un modo per curarsi, senza la pretesa di guarire. Lo conosciamo. Fin troppo bene, lo conosciamo.
La partita finisce con la Fiorentina sotto lo spicchio viola ad abbracciare i tifosi, e il Toro, guidato dal capitano Belotti, che raggiunge le curve e abbassa la testa, applaude triste a una tifoseria imbufalita, delusa non tanto dal risultato, quanto dal non essersi riconosciuta in campo.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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