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columnist
Che la Juve giochi la finale di Champions mi importa davvero poco. Io sabato sera sono andata al cinema. Però ho largamente sorriso, nel buio, ad apprendere di ogni siluro: colpito, colpito, colpito, colpito. Affondato!
E perdono. Sette volte perdono. Questo mi spiace nella misura in cui sembra che una negatività ancestrale di tipo Champions sia con loro, e alla Juve non riesco a riconoscere nulla di spirituale o soprannaturale. Solo la materialità del potere.
Un Real futuristico, da guerre stellari, contro una Juve armata di catapulta e alabarda, medioevale.
Un attimo di tenerezza nel vederli disorientati davanti alla scoperta che si può avere l’arbitro contro. Ma facciamo tenerezza anche noi, che ci accontentiamo di sfottere chi è scivolato durante l’arrampicata, a un soffio dalla vetta. E lo facciamo guardando da lontano, lontano. Da un lontanissimo nono posto in campionato.
Meno male che c’è Capitan Glik, con il suo “giustizia è stata fatta” si conferma ultras della Maratona, di quelli che d’inverno stanno a torso nudo e danno ritmo ai cori.
Silenzio bianconero dopo la partita, che poi è diventato il silenzio di tutti, a Torino. Silenzio davanti allo tsunami di terrore in piazza San Carlo, silenzio per i 1500 feriti che hanno riempito il pronto soccorso, per il bimbo che voleva tifare la sua squadra e ora ha bisogno che tutti tifino per lui.
Perché così tanto pressapochismo nell’organizzazione dell’evento nella città sabauda? Nella fiscale, burocratica, tignosa, Torino?
La città delle code ai tornelli del Grande Torino e delle perquisizioni che non risparmiano neppure gli zainetti dei bambini. La Torino che allo stadio non fai entrare una bottiglia d’acqua neanche se sei il mago Silvan.
La Torino così attenta alla sicurezza dei torinesi da non autorizzare per intero le manifestazioni sportivo-culturali proposte per il Filadelfia. Proprio quella Torino che quando gioca il Toro, capita sempre la domenica ecologica e giustamente vincono le priorità ambientali, ti aggiusti.
Permettere la vendita di bevande in bottiglie di vetro intorno a una piazza destinata ad accogliere migliaia di persone è poco sabaudo. Non regolarizzarne l’afflusso, è poco sabaudo. Non programmare e vigilare sulle vie di fuga, è poco sabaudo. Anzi, è da incoscienti.
Chi va allo stadio a vedere il Toro è abituato a rispettare mille e una regola in tema di sicurezza e sabato sera è stato drammaticamente dimostrato quanto possa essere dannoso, non farlo.
E non è la Appendino, il problema, come non lo era Fassino o Chiamparino. E’ che Torino ha due anime, una rispetta le regole e l’altra le decide. Una delle due ha pochissimo a che spartire con la città, nonostante la domini. Per questo, raccoglie milioni di tifosi nel resto dell’Italia.
Ci sono i pochi tifosi juventini che si comprano il biglietto per Cardiff senza neanche informarsi sul prezzo e la moltitudine di quelli che la partita la guardano da piazza San Carlo, così come da tante altre piazze italiane. La Juve è la squadra per chi una squadra non ce l’ha, e finisce per scegliere quella che vince, quella che fa prendere polvere alle coppe. Quella che forse promette una rivincita alle mille cose della vita che vanno storte. Quella che ai piccoli tifosi insegna: vincere non è importante, è la sola cosa che conta.
E ora ci vogliamo mettere a discutere del modo, in cui vincere?
No. No perché noi, siamo l’altra anima di Torino.
Ma alla fine, tra i cubetti insanguinati e i rifiuti di piazza San Carlo, sabato c’è stato poco da ridere per tutti.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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