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Quando parliamo di persone

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Loquor / “Non sono più tornato a Vukovar. Non ci riesco. Quello che ho provato io, può raccontarlo anche un croato. Abbiamo vissuto un impazzimento della storia. E abbiamo pianto e perso, tutti". Sinisa Mihajlovic
Anthony Weatherill

Come molti sanno ho un legame particolare, quasi parentale, con Sir Matt Busby; colui che pose le fondamenta che hanno creato la leggenda del Manchester United. “Zio Matt”(così io lo chiamavo) di mestiere aveva fatto prima il calciatore e poi l’allenatore, facendo diventare il calcio l’essenza della sua vita. Mi è sembrata una buona occasione, iniziando oggi un filo diretto con i lettori di “ToroNews”, fare una riflessione su colui che oggi saluta la gestione tecnica del Torino e che è stato, prima di diventare un allenatore, un buon calciatore. Non mi addentrerò in una disamina sulle qualità o meno dell’ ormai ex allenatore dei granata, perché non è mio compito fare valutazioni tecniche sulle vicende attuali della squadra torinese (altri, anche su questa testata, lo fanno da più tempo e sicuramente meglio di quanto io eventualmente potrei fare). Avendo vissuto da vicino le vicende sportive e umane di Matt Busby, mi sono fatto un’idea di come, a volte, noi tifosi possiamo dimenticarci dell’uomo che ospita la figura dell’allenatore che ogni tanto contestiamo e ogni tanto lodiamo.

Ho come la sgradevole sensazione che l’allenatore cessi di essere visto come una persona, diventando così uno specchio che riflette solo la sua funzione. Sinisa Mihajlovic è nato a Vukovar, un piccolo centro situato ad est dell’odierna Repubblica della Croazia e attraversato dal secondo più grande fiume del continente europeo: il Danubio. Sinisa bambino cresce a Borovo Selo, un villaggio a nord di Vukovar composto dalla tipica babele di etnie che era una delle caratteristiche principi della ex Jugoslavia titina. Il futuro campione di calcio cresce circondato dalle amorevoli cure di un padre serbo e di una madre croata ignaro, come tutti i suoi connazionali, del destino terribile a cui tutta la exjugoslavia stava andando incontro. Ad agosto del 1991 truppe dell’Armata Popolare Jugoslava, con l’appoggio di milizie paramilitari serbe, iniziarono l’assedio di Vukovar ingaggiando una sanguinosa e feroce battaglia contro la Guardia Nazionale Croata. Negli 87 giorni d’assedio, in cui le milizie paramilitari serbe si macchiarono di ogni tipo d’atrocità, furono stroncate molte vite e probabilmente fra queste c'erano conoscenti e parenti dell’attuale ex allenatore granata. Parenti e conoscenti croati e serbi.

Nel 91 Mihajlovic è già un giocatore celebre in patria, avendo peraltro appena conquistato  alla stadio San Nicola di Bari la prima e unica coppa dei campioni della storia della ex Jugoslavia. La vittoria contro l’Olympique Marsiglia fu ottenuta dopo i calci di rigore, uno dei quali realizzato proprio dall’allora giocatore serbo. L’orgoglio e il sentimento d’appartenenza dei popoli slavi è cosa nota, e nel 1991 erano presenti nella ex Jugoslavia atleti di fama mondiale in diverse discipline. Questi atleti erano delle vere proprie icone del complesso “sentiment” identitario slavo, e in quel drammatico 1991 furono costretti a schierarsi. Mihajlovic, dopo la storica vittoria del 29 maggio, fa presto ad essere adottato e coccolato dagli ultras della Stella Rossa di Belgrado, frangia di tifosi che in quel momento erano noti per coinvolgere lo sport come straordinario mezzo di propaganda del nazionalismo serbo. Non sarebbe stato nulla di nuovo sotto il sole, in fondo, se tutto non si fosse pericolosamente confuso in una delle guerre civili più sanguinose che la storia del mondo ricordi.

Il giovane Mihajlovic diviene presto amico di Zeliko Raznatovic, che nel maggio del 1991 era il leader indiscusso degli ultras della Stella Rossa. Sulle gradinate dello stadio Marakana di Belgrado si forma la costruzione psicologica nazionalista di Raznatovic, che lo porterà a crearsi la fama leggendaria di uno dei più feroci e sanguinari combattenti della guerra della ex Jugoslavia. Da quel momento per tutto il mondo Raznatovic sarà semplicemente il comandante Arkan, comandante della formazione paramilitare serba denominata le “Tigri di Arkan”. Il 19 novembre del 1991 Arkan, alla testa della sua milizia, fu uno dei primi ad entrare nella stremata Vukovar ormai distrutta e ridotta alla fame dagli 87 giorni d’assedio. I croati si erano difesi disperatamente, e proprio Borovo Selo era stato teatro di uno degli scontri più terribili.  Nelle mani di Arkan, nel corso di una delle pulizie etniche più feroci che la storia del mondo ricordi, finisce il fratello della madre di Mihajlovic, che aveva giurato di ucciderle il marito serbo.

Mihajlovic in quel momento ha solo 22 anni, ed è soggiogato dal tipico furore della gioventù. Ama la Serbia, ama il suo popolo, e sarebbe disposto a fare qualunque cosa per difendere gli interessi della sua gente e della sua terra. Esattamente come sarebbero disposti a farlo, in quel momento, qualsiasi giovane croato, serbo, bosniaco e sloveno. Ma Sinisa è un giovane celebre, un mito assoluto anche per una bestia sanguinaria come il comandante Arkan, che gli telefona per sapere se quell’uomo che dice di essere suo zio, è veramente suo zio. Semmai non lo fosse, gli dice Arkan, il suo destino sarebbe quello di tanti croati di Vukovar: pallottola in testa e fossa comune. Devono essere passati, in quel drammatico momento, tanti pensieri contraddittori nella testa dell’allenatore serbo. La voglia di rinnegare uno zio che aveva giurato di uccidere suo padre, i tanti amici e parenti morti, le macerie che ormai circondavano lui e tutta la gente della ex Jugoslavia. In pochi istanti c’era da decidere se un uomo dovesse vivere o morire. E tutto in quei 22 anni che gli ribollivano dentro. Mihajlovic scelse la vita, scelse l’umanità, scelse il perdono: “ sì, quell’uomo è mio zio”, rispose ad Arkan. Ci sono cose che determinano la vita di un uomo, che ne delineano i contorni dell’anima.

Tempo fa sono capitato a Mostar, una delle città della Bosnia più martoriate dalla guerra civile. Tra i palazzi e le case, con le pareti “ornate” di fori di proiettili e granate, si affacciavano sulla strada, come  moniti improvvisi, piccoli cimiteri. Notai le numerose foto di giovani deceduti proprio nel periodo della guerra della ex Jugoslavia. Quelle foto mi sono rimaste impresse e ho pensato che, se non fosse stato calciatore, l’orgoglio e il temperamento duro di Mihajlovic sicuramente lo avrebbero portato a combattere in prima linea per la sua Serbia. E forse oggi ci sarebbe stata la sua foto di giovane su una tomba anonima del cimitero di Vukovar. Il calcio poi ha portato Mihajlovic in Italia e il resto è storia nota. Si sposa con una italiana, che gli regala cinque splendidi figli. La sua capigliatura nera e folta diventa grigia, a ricordare  un tempo trascorso che gli è stato concesso. Nei suoi comportamenti a volte burberi a volte sorridenti, sembra non esserci spazio per la tristezza. Ma chiunque abbia vissuto una guerra, chiunque abbia perso qualcuno o qualcosa, sa che la tristezza non passerà mai (nessuno come voi tifosi del Toro è in grado di capire questo).

Allora, cari tifosi del Toro, ora che è calato definitivamente il sipario tra l’allenatore serbo e la squadra del vostro cuore, nel salutarlo fermatevi un attimo e ricordate. Il calcio ha probabilmente salvato Mihajlovic, come salva a volte noi tifosi dalle conseguenze nefaste dei nostri dolori e delle nostre umiliazioni. Gli allenatori e i calciatori devono ricordarsi che dietro ogni tifoso c’è una persona (come sovente si dimenticano, nell’accavallarsi di notizie del mondo dorato del pallone, i sacrifici dei tifosi…), e noi tifosi dobbiamo ricordarci che dietro ogni calciatore e allenatore ci sono altrettante persone. Per qualche ora della nostra giornata attraversiamo insieme, godendo della  passione per questo straordinario sport, attimi di vita irripetibili.  Ciò ci rende grati di essere vivi e di essere ancora in grado di amare. Questo è uno degli insegnamenti che mi ha lasciato zio Matt, questo è l’augurio che faccio a tutti per il 2018.

(collaborazione di Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherill, originario di Manchester e figlioccio dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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