Ricordo perfettamente quella serata, come ognuno di voi che state leggendo questo piccolo scritto. Uscii da casa di mio zio, in lacrime. Avevamo visto a casa sua tutte le trasferte di quella trionfante cavalcata europea, nel suo salotto, sul divano a fiori e sulle poltrone color granata. Era diventato un rituale che non avevamo voluto cambiare, in ossequio alle scaramanzie paterne e alle prestazioni di quel Toro tanto bello e tanto spavaldo.
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Quattro giorni dopo Amsterdam
Un secondo dopo il fischio finale, Amsterdam divenne, nelle menti del mondo granata, come un chiodo fisso e la delusione di quella coppa svanita così brutalmente, un what if talmente ingombrante che ancora oggi è uno dei nostri peggiori incubi. Quel Toro e quei tifosi non avrebbero meritato la serata di Amsterdam, o meglio, non ne avrebbero meritato l’epilogo.
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Per elaborare un lutto così grande, seppur sportivamente parlando, l’unica cosa da fare era tornare subito in campo, tornare a tifare, supportare, per l’ennesima volta, quella società bella e dannata anche davanti alla delusione più cocente di sempre. Ritornare a correre dopo esserti rotto una gamba, strappare il cerotto per vedere come guarisce la ferita. Il cerotto lo tolse Emiliano Mondonico al primo impegno utile: Atalanta-Toro, 17 maggio 1992, la sua partita del cuore.
Appena quattro giorni dopo la finale di Coppa UEFA, c’è la penultima giornata di un campionato da onorare, c’è da strappare il terzo posto al Napoli e confermarsi come miglior difesa del torneo. Ma soprattutto, bisogna dimenticare, per quanto possibile, la notte di Amsterdam. Molti tennisti, dopo un errore grave, si passano la mano davanti agli occhi, come a voler dire: cancella, riparti. E il Toro, per sopravvivere ad Amsterdam, aveva bisogno di cancellare dagli occhi e dal cuore le tossine di quella notte disgraziata.
Quella che va in scena al Comunale di Bergamo è una partita particolare, tipica dei finali di stagione. Lo si intuisce da subito, ben prima del calcio d’inizio. Sul campo, scende Glenn-Peter Stromberg, amatissimo capitano e simbolo della franchigia nerazzurra che si ritira dal calcio giocato dopo otto anni di militanza sotto le insegne della Dea. La curva nerazzurra colorata di giallo e azzurro come la bandiera svedese, gli rende omaggio mentre lui, in tuta bianca, sfila sotto la sua gente.
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È una partita di fine stagione, con il sole caldo, i ritmi lenti e cadenzati nemmeno fossimo in una balera romagnola. In queste partite succede un po’ di tutto, i giocatori hanno la testa altrove, vengono fuori protagonisti insospettabili, si vedono giocate e gol belli ed estemporanei che vorresti fosse sempre primavera inoltrata. I bergamaschi si congedano dal loro pubblico e lo fanno nel peggiore dei modi.
Il Toro parte bene e, un cross sbagliato da Sordo, colpisce la parte alta della traversa, procurando un piccolo brivido all’estremo atalantino. È un campanello d’allarme che i padroni di casa non recepiscono e così, al 31’, Bresciani, il Buitre granata, porta in vantaggio il Toro. Non è stata un’annata brillante per il piccolo centravanti, che ha marcato soltanto quattro gol nelle ventisei presenze stagionali: il suo gol, e la successiva esultanza, sono quelle di chi sa di aver perso un’occasione importante. Tutto nasce da una rimessa laterale battuta all’inglese da Tarzan Annoni. La lunga gittata del terzino granata trova la spizzata di Lentini, che allunga la traiettoria del pallone. La sfera arriva sul dischetto del rigore, dove Bresciani, appostato e solitario, gira a rete di prima intenzione. Uno a zero per il Toro.
L’Atalanta non reagisce, il Toro insiste. Non ci si crede. Dove avrà trovato, il Toro, le energie nervose per fare questa partita, soltanto quattro giorni dopo Amsterdam? La risposta è semplice. Questa indimenticabile versione del Toro prescinde dalle doti tecniche ma è ben fornita di doti umane, caratteriali e morali che hanno contraddistinto i colori granata in alcune versioni special edition. Inutile fare classifiche ma, dopo Superga e dopo gli eroi del ’76, ci sono Mondonico e quella squadra costruita sulle macerie di una retrocessione avvenuta appena due stagioni addietro.
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Al 38’ il Toro raddoppia. Bruno verticalizza per Scifo. Il centrocampista italo-belga si accentra, con una mezza finta, che ricorda quella di Falcao contro l’Italia nel 1982, manda al bar due difensori orobici, arriva al limite dell’area e con un destro basso e angolato batte Ferron.
Due a zero. L’Atalanta resta in dieci per l’espulsione di Cornacchia ma reagisce e riapre la partita. Ci pensa Caniggia, che elude l’intervento di Marchegiani in uscita bassa e batte a porta sguarnita.
A questo punto, dopo il pregevole gol dell’argentino, uno dei giocatori più bestemmiati di sempre dal sottoscritto (vedasi il gol al San Paolo, semifinale Italia-Argentina, Italia ’90), il Toro chiude il match. Lo fa con la forza dei nervi distesi, con il vantaggio numerico e con un gol che nell’epoca di tiktok e dei social farebbe milioni di visualizzazioni se a farlo fosse uno dei giocatori copertina di questi tempi. Una fighetta, direbbe Pasquale Bruno, che alla sua terza (e ultima) segnatura in Serie A, marca il definitivo 3-1. Scifo verticalizza per Bruno al limite dell’area. Stop di destro, sombrero di sinistro sul difensore atalantino e gran botta al volo, di nuovo di destro, a battere Ferron. Una roba da bomber vero, il gol del secolo per un calciatore più avvezzo ai tackle che non a deliziosi palleggi e stoccate da centravanti.
C’è il tempo, con Bresciani, di cogliere l’ennesimo palo di una settimana maledetta (e fanno quattro) e poi assistere alla più classica delle invasioni di campo da parte del pubblico di casa. Alla fine della partita mancano ancora due minuti e l’arbitro Arena è costretto a mandare tutti negli spogliatoi per evitare guai peggiori. Passa quasi un quarto d’ora e, preso atto che non si può più tornare in campo, lo speaker dello stadio, avvisa il pubblico che la partita è bella che conclusa.
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Per tutti, ma non per uno: Emiliano Mondonico, il tecnico che seppe costruire quell’intelligente alchimia, una squadra capace di spingere sull’acceleratore, giocando con furore e agonismo, e alla bisogna, in maniera più compassata e cinica, quando gli avversari erano più agevoli o come quel 17 maggio, con la squadra stanca dalle fatiche di una notte sfortunata. Un allenatore capace di portare il Toro al terzo posto, con l’oscar della miglior difesa del campionato davanti al Milan, in un’epoca in cui i campioni d’Italia schieravano gente come Tassotti, Maldini, Baresi e Costacurta. Un risultato straordinario che permise al Toro di qualificarsi per la successiva Coppa UEFA, un piccolo scudetto, per una squadra che solo due anni prima era in serie B.
E se Stromberg si era meritato in apertura i cori e gli applausi del tifo atalantino, il Mondo, al termine della partita, venne portato in trionfo da quegli stessi tifosi, che, evidentemente, non avevano dimenticato quanto aveva fatto di buono anche a quelle latitudini. Il Toro, il Mondo, Bergamo, l’Atalanta: così lontani, così vicini. Mi piace pensare che quella vittoria di Bergamo fu la scintilla necessaria per far ripartire il Toro e il ciclo di Mondonico che si concluse un anno dopo con la vittoria della Coppa Italia.
Mondonico, quel Toro, Amsterdam, l’Ajax e i tre pali faranno per sempre parte della nostra storia. Bergamo, quel giorno, fu la prima tappa di una delle tante rinascite a cui siamo stati abituati. Quattro giorni appena, dopo la notte di Amsterdam.
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
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