columnist

Quello che non ho è una maglia a strisce

Maria Grazia Nemour
Sotto le granate / "Per capire cosa sono, mi domando cosa non sono"

Delinearsi per sottrazione, guardando chi ci sta davanti e indicando quello che ci fa diversi, può essere un modo relativamente semplice di riconoscersi. Il derby è anche questo, contrapposizione. Per capire cosa sono, mi domando cosa non sono.

Non sono una persona capace di declamare il motto coniato da Boniperti “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, di più, più addirittura di Bonaparte: “Vorrei vincere un derby al novantesimo, con un autogol”.

Vincere è la cifra di quella società, ne è il colore e l’appartenenza. Vincere, è il fine che legittima qualunque azione volta al suo adempimento, il modo diventa secondario se coerente col verbo, vincere. Vincere è la terra del desiderio in cui si incontrano potenti e diseredati, non c’è bisogno di altri riferimenti valoriali, filosofia interpretata alla perfezione da Presidente e Allenatore, perché lì, o sei così, o non sei.

Un Presidente che ha detto “Quello lì, voglio quello lì” nel momento stesso in cui Ronaldo gli ha inferto una sconfitta, lo stesso Presidente che si è inventato un giochino elitario, l’Eca, di cui pretende fissare le regole, la prima: io rappresento tutti. Eca, l’aspirazione a un supercalcio organizzato da sedicenti superuomini della finanza la cui unica tensione è verso una prosaica volontà di potenza del fatturato. Il gioco popolare, è morto.

E poi un Allenatore che assomiglia al Presidente, per forza. Un Allegri che ha compreso quanto il mondo avvertisse il bisogno di poter consultare la sua autobiografia, sfogliare e comprendere le parabole del calcio. L’Allenatore è un fine stratega che conosce ogni tattica ma conosce ancora meglio gli uomini, dice, è su quelli che tesse il gioco. E potrei pure essere d’accordo, strano solo che tanta sensibilità agli umori umani non gli abbia insegnato che non c’è nulla di peggio di negare un autografo a un bambino che prima del derby si avvicina con un foglio in una mano che trema di emozione. Mi viene la cinica tentazione di dire che le carezze si ostentano solo quando si pensa di avere la telecamera a favore, così come gli striscioni a misura uomo a bordo campo, ma in realtà non lo credo affatto. Anzi, sono convinta che i gesti carichi di bellezza – che sia una carezza o un omaggio a persone grandiose – non perdano mai la loro nobiltà intrinseca, quale che sia l’obiettivo per il quale sono stati posti in essere.

Durante un derby c’è sempre qualcosa da imparare su noi stessi, e può addirittura succedere di scoprire che se ci si amiamo, è superfluo cercarci nella contrapposizione.

Ho amato il Toro che è sceso in campo al derby. Ho creduto in quegli uomini, e non l’ho fatto fino all’84esimo, ma fino all’ultimo centesimo di recupero. Ho creduto di vincere e non è successo, ma durante la partita non mi ha sfiorata il pensiero “Ah, se fossimo noi così, a strisce”. Neanche quando Ronaldo ha atteso per 2-3 minuti sospeso in aria – o almeno così hanno cronometrato i commentatori – la palla da trasformare in gol. Una dolcissima tifosa granata di novantun anni, ascoltando la partita alla radio, all’84esimo ha urlato un: “Ah, che gramo quel Ronaldo!”

Ma no, Ronaldo non è gramo, è solo altamente performante, l’investimento di una società che ha un fatturato quattro volte quello del Torino, chiaro, che sia in grado di chiudere una partita. Eppure, tra profitti e  perdite, la settimana passata mi sono sentita ricchissima, in campo e ogni volta che ho letto un giornale, guardato la televisione: da settant’anni il Grande Torino continua a regalare carezze gratuite – non ne esistono di altro tipo – a qualsiasi bambino corra con un pallone al piede e, spalancando le braccia, urli: gooool!

Non è ancora finita, che nessuno smetta di correre. A fine campionato sapremo esattamente chi siamo, ma già quello che vedo adesso, non mi dispiace.

 

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.