Guardare Attilio Romero mi provoca sofferenza. Nei tratti del suo viso c’è il mio Toro del dolore. Qualche giorno fa l’ho rivisto alla trasmissione “Rabona” e mi sono chiesta se anche per lui sia così, se si senta scritto nelle pagine nere della storia del Toro, quelle del tormento legato alla morte e all’agonia del fallimento.
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Romero me lo ricorda ancora: nessun regalo
Romero rilasciava un’intervista per raccontare che questa settimana incontrerà, dopo più di cinquanta anni dall’incidente, la sorella di Gigi, Maria Meroni. Due affetti, per Gigi, di materia umana completamente diversa – da una parte quello dell’unione fraterna delle molecole del sangue, dall’altra quello dell’ammiratore che fa dell’immagine di Gigi Meroni la sua carta da parati in camera, che una foto la tiene perfino in macchina, quella macchina che non si ferma in tempo in corso Re Umberto – che forse, dopo mezzo secolo, possono compenetrarsi e riempire qualche spazio di vita rimasto vuoto. Qualcosa di così intimo che si stenta a comprendere perché debba essere annunciato in televisione.
Per chi come me non crede alle coincidenze, ma classifica gli accadimenti della vita come parti di un disegno che si può interpretare solo guardandolo con la dovuta distanza (e a volte non è sufficiente una vita, per arrivare a quella distanza), il Toro è un arabesco incomprensibile. Meroni che chissà cosa ha pensato, scoprendo che il pilota dell’aereo sospeso per sempre su Superga si chiamava come lui, Luigi Meroni.
Gigi Meroni che è fermo sulla striscia continua nel mezzo di corso Re Umberto – la sua originalità è la medesima fuori e dentro il campo di calcio, una di quelle persone che cambia le regole non per vezzo ma perché vive già con quelle che verranno. Amato e contestato come calciatore e come uomo. Felice della vittoria sulla Samp conquistata qualche ora prima, preoccupato di una scelta sentimentale che richiede continua cura – un attimo di indecisione che gli fa fare un passo indietro e un Romero di 19 anni che non riesce a valutare le distanze e spinge la vita del suo idolo dall’altro lato della carreggiata, addosso alla morte. Il primario Romero, padre di “Tilli” Attilio Romero, che era di turno in ospedale e quella notte prova a salvarlo, Gigi Meroni.
Romero, figlio della Torino che tutto può, che si pettinava come Meroni per avere successo con le ragazze; Romero che continua a vivere per cinquant’anni a pochi metri dal cippo commemorativo di corso Re Umberto. Indimenticabile, non dimenticare.
Romero che era un ragazzo della Maratona, che in famiglia frequentava i vertici del Toro ma anche quelli della Juve, che scala la dirigenza della Fiat e diventa il portavoce di Giovanni Agnelli. Romero che nel 2000 risponde sì, a Cimminelli, che gli chiede di fare il Presidente del Torino. E poi dice: “All' inizio, quando Cimminelli mi ha fatto la proposta credevo che scherzasse, o che avesse detto certe cose per compiacermi, conoscendo il mio tifo. Ma quando mi ha assicurato che faceva sul serio, mi ha esposto i suoi programmi, ho avuto modo di apprezzarne la serietà, la solidità e soprattutto la durata. E non ho avuto difficoltà ad accettare”. Cimminelli, un fornitore Fiat.
Ricordo che in quel giugno del 2000 avevo assoluta necessità di sperare per non disperare e ho pensato: mio padre ha lavorato tutta la vita per Agnelli – in linea, non si scambiavano propriamente il buongiorno – e vivere otto ore in Fiat ogni giorno ha rinforzato, semmai ce ne fosse stato bisogno, il suo essere del Toro nella Torino della Fiat. Ma Romero l’ho sopravvalutato, no, lui non era mio padre, il ragazzo della Maratona in cinque anni ha sporcato il Toro di bancarotta documentale. Un giorno fu esposto uno striscione deprecabile “Romero assassino”. Lui disse che aveva messo in conto coltellate di quel tipo, quando decise di accettare la presidenza. Nella mia testa non ho mai collegato quella scritta a Gigi Meroni, “Tilli” aveva assassinato l’onore del Toro, questa era l’accusa. Nella migliore delle ipotesi, per superficialità. Un gioco, a cui sapeva che avrebbe giocato poco. Nella peggiore delle ipotesi, con dolo, per tornaconto. E poi la Fiat che chiude uno dei cerchi dell’arabesco Toro, rilevando la ditta di Cimminelli dal fallimento.
In pochi lo hanno detto meglio di Federico Buffa: «Se la sorte ti ha dato in dote di essere innamorato di una squadra come il Torino, allora avrai la ragionevole certezza che quel tuo amore non sarà mai angustiato dalla monotonia. Ma da qualsiasi altra possibile condizione dell’anima, inevitabilmente, sì». Ogni momento di gioia, pagato con profonda sofferenza. Nessun regalo.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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