columnist

Se fossi del Toro

Cairo, Superga
Loquor / L'apprezzata rubrica del nostro Anthony Weatherill
Anthony Weatherill

“Meglio dormire libero in un letto scomodo

  Che dormire prigioniero in un letto comodo”

Jack Kerouac

Tempo fa il bravo Mario Giordano, tifoso granata al di sopra di ogni sospetto, ha lanciato dalle colonne di Toro News una sorta di apologia della gestione del Toro da parte di Urbano Cairo, affermando che di più il presidente alessandrino proprio non poteva fare da quando è proprietario di uno dei club dalla storia più suggestiva del calcio italiano. Giordano, toccando tasti senz’altro dolorosi per i tifosi granata, ha rimarcato la mancanza di alternative, nella eventuale ipotesi che il proprietario del Corriere della Sera si dovesse disamorare della società granata. Il sottinteso posto in modo evidente da Giordano è stato che, non avendo nessun sceicco o imprenditore cinese all’orizzonte, Cairo è sicuramente il migliore dei mondi possibili.

“Sorridi… domani andrà peggio”, recita una delle massime della Legge di Murphy, sottoscritte  da me  a malincuore   se le cose del Toro dovessero continuare ad essere gestite da Cairo come ha fatto sino ad oggi. Non discuto la buonafede e l’abilità imprenditoriale di una persona di indubbie qualità, che hanno fatto di Urbano Cairo uno degli imprenditori italiani più interessanti degli ultimi vent’anni; e non discuto nemmeno la buonafede e l’amore per il Toro di una persona perbene come Mario Giordano. Metto in discussione la loro totale mancanza di visione esistenziale in merito alla questione. Il poeta toscano Dino Campana una volta osservò “che tutto va meglio nel peggiore dei mondi possibili”, che è esattamente dove il presidente granata, e altri suoi colleghi, stanno rischiando di portare il calcio. E’ davvero singolare come la gestione del Torino Calcio stia andando esattamente nella direzione opposta rispetto ai motivi per il quale una persona, in un determinato giorno della sua vita, potrebbe cogliere il motivo per cui diventare un tifoso granata. L’analisi logica di tale motivo, deve per forza partire dal fatto che se la società piemontese ha tifosi sparsi per tutta l’Italia, non è certo per il numero di vittorie conseguite. Nessuno finisce in un posto per caso, poiché la vita ha delle sue calamite attrattive alle quali non possiamo sfuggire. Quando William Shakespeare scrive che “siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni”, sottolinea l’essenza umana, quella parte più profonda di noi che è immutabile ed eterna alla quale è stato dato il nome di anima. Parte fondamentale dell’essenza umana sono proprio i sogni, che secondo Platone “sono quel luogo dove i pensieri esprimono la loro carica emotiva”.

In questo luogo essi, i sogni, non sono solo pensati ma anche sentiti, definendo un intreccio tra ragione e sentimento che vanno a comporre l’intero essere dell’uomo. Se ciò è vero, allora quando rivolgiamo lo sguardo alla fenomenologia del tifoso dobbiamo sempre tenere conto, in primissima istanza, la carica emotiva espressa dalla sua costruzione esistenziale. Una persona nata e cresciuta nel meridione se sceglie il Toro,  pur avendo l’opzione di poter scegliere i soliti squadroni vincenti, esprime quell’intreccio di ragione e sentimento al quale chiunque gestisca i destini del Torino Calcio non può non rendere conto. Non sono titolato, in quanto non tifoso del toro, a descrivere tutti i connotati della carica emotiva dei tifosi granata, ma in proposito credo di poter fare una qualche riflessione dettata da un semplice spirito di osservazione. La distanza via via createsi negli ultimi anni dalla Juventus, ha rotto una delle più affascinanti rivalità del calcio italiano, uno di quei fenomeni che rendevano il Derby della Mole interessante ed emotivo anche per chi non tifava per le due società del capoluogo piemontese. La potente e forte compagine bianconera temeva le due date del campionato che la vedevano opposta alla società granata, e questo timore riempiva d’orgoglio la tifoseria granata: agli occhi del mondo c’era una squadra attrezzata per poter fermare chi, in teoria, non poteva essere fermato.

Nell’Enrico V William Shakespeare descrive meravigliosamente questa che è tra le più belle suggestioni umane: non è vero che i più potenti e ricchi vincono sempre. Infatti nella battaglia di Azincourt, tema centrale dell’opera scespiriana, gli inglesi, inferiori di numero e meno armati dei francesi, vincono. Dare alla gente la sensazione di poter competere non è cosa di poco conto; e soprattutto, qualora questa sensazione non ci fosse più, non gli si può rispondere con i conti messi a posto. Questo perché la vita, nonostante ci siano forze costantemente a lavoro per far credere il contrario, non si può attraversare con un banale calcolo da ragioniere.

Fallire non vuol dire perdere il diritto a riprovarci (ecco perché trovo estremamente infame una cosa come la “Centrale Rischi” italiana), non vuol dire mutilare definitivamente i sogni. Lo voglio dire con chiarezza e forza: bisogna smetterla, nel maldestro tentativo di difendere Urbano Cairo, di ricordare ai tifosi del Toro che la loro squadra un giorno fallì. Quando si prende la proprietà di una squadra di calcio, si ottiene di gestire una sorta di visione e di racconto, ai quali è dovuta comprensione e rispetto. Voglio essere, davvero a malincuore(perché voglio bene al Toro), ancora più chiaro: oggi difficilmente un bambino che non sia di Torino sceglierebbe l’opzione Toro. La perdita dell’universalità dell’essere granata,  egregio Mario Giordano, è da ascrivere unicamente alla gestione di Urbano Cairo.

Aggiungo lo stupore che proprio a lei, di cui ho letto libri e articoli, stia sfuggendo questo fenomeno, un fenomeno chiamato “perdita progressiva d’identità”. E quando sento e leggo che il Torino dovrebbe uniformarsi al modello Atalanta, allora vuol dire che in Italia molti ormai hanno perso il senso della realtà e della loro storia. La voglia di essere realisti non dovrebbe mai consentire di mortificare la carica emotiva di una persona. Il giorno in cui il Torino Calcio dovesse sul serio aspirare ad essere come l’Atalanta (e lo dico con tutto il rispetto dovuto alla società bergamasca), quel giorno sarà sancita la fine della Storia. Questa fine della Storia, sarà uno dei tanti misfatti compiuti ai danni dell’Italia contemporanea (e a quel punto non sarà servito davvero a nulla aver ricostruito il Filadelfia).

A voler fare un paragone giuridico (forse un po’ ardito, ma spero lo perdonerete), un presidente di un società di calcio dovrebbe affrontare la gestione del proprio club in regime di “animus possidendi”, perché la proprietà di una società di calcio porta ad essere titolari di un altro diritto reale. E’ facile intuire come quest’altro diritto reale sia quello dei tifosi. La storia di una squadra di calcio non è a disposizione di un presidente pro tempore, esattamente come la dottrina cattolica non è nella disponibilità di un pontefice.

Prefigurare come massimo obiettivo il settimo posto in campionato vuol dire, e anche questo lo dico con il massimo rispetto, non aver capito nulla del magnifico racconto  portato avanti dal Torino Calcio da quel lontano dicembre del 1906. Il problema non è arrivare settimi, piuttosto che secondi, piuttosto che decimi; poiché questi sono passaggi di classifica che prima o poi arrivano, anche fosse solo per casualità fortuite. Il problema è recuperare quel bambino di un lontano luogo siciliano o lucano, che sta vagando smarrito in cerca di una visione dove possa riporre, fiducioso, il sogno “del provarci sempre, e in ogni condizione” (perché questo è lo spirito del Toro).

Urbano Cairo ha il compito importantissimo, vitale direi, di riportare nella sua casa naturale questo bambino. Al Toro non auguro uno sceicco o un cinese mandato in missione per conto del suo governo, perché non sarebbe un augurio ma un invito a quel significato universale che auspico la società granata ritrovi. Urbano Cairo non ha bisogno di articoli apologetici (lui sa già di essere bravo), non ha bisogno di retorici sostegni e non ha bisogno di qualcuno che gli insegni come si gestisce un’azienda. Ha solo bisogno che qualcuno gli sussurri all’orecchio il ricordo dell’amata madre e perché, un giorno, lei decise di tifare per il Torino. Da parte mia (e chiedendo perdono ai tifosi del Toro se per un attimo mi sono voluto immischiare nelle loro cose), voglio contribuire ricordandogli una bellissima frase scritta da Jack Kerouac: “forse la vita è questo… un battito di ciglia e stelle ammiccanti”.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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