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Se la scienza ritorna alle leggi razziali

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Rubriche / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: “Capello ha detto chiaramente come in questi ultimi anni il campionato italiano sia stato un deserto popolato dalla Juventus"
Anthony Weatherill

“Il bisogno di certezza è sempre stata

più forte del bisogno di verità”.

Gustave Le Bon

“Ogni stato ha il diritto/dovere di essere guidato dai migliori, l’Italia è uno stato, quindi ogni governo che lo presiede è composto dai migliori del momento”. A questo sillogismo da logica aristotelica, pare, nell’Italia contemporanea, non potersi opporre nessun altro impianto logico teso a confutarlo. A un giornalista timidamente dubbioso sulle qualità di Domenico Arcuri, nominato dall’attuale governo “Commissario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere” provate dal Covid-19, un Giuseppe Conte particolarmente in forma sull’altissimo concetto di sé, risponde con una non risposta alquanto irritante, ma a difesa ferrea del sillogismo aristotelico di cui sopra: “se pensa di potere far meglio…”. Nella mentalità oligarchica sviluppatasi nel tempo nella vita del potere politico ed economico italiano, andata a sostituirsi silenziosamente alla democrazia e al merito che erano le intenzioni ideali per il Paese nei parlamentari della Costituente del dopoguerra, il moderatismo del pensatore greco deve essere stata una vera e propria manna dal cielo. Il sillogismo, se usato ad “usum delphini”, è una vera pacchia per chi cerca vestiti giustificativi a delle premesse logiche ipotetiche, che si vorrebbe diventassero delle vere colonne d’ercole d’interpretazione della realtà. Il limite del sillogismo, utile a volte per spiegare realtà complesse, è quello di muoversi liberamente in campi indefiniti, aiutando i più disinvolti a trovare motivi di diritto laddove sarebbe impossibile trovarne. Il travisamento della realtà, inventandone sovente addirittura una di sana pianta, è una delle conseguenze di questo modo di muoversi nella vita, provocando, a lungo andare, un disorientamento nella pubblica opinione.

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Fabio Capello, in una recente intervista, alla domanda se il calcio italiano fosse migliorato grazie alle otto vittorie consecutive in campionato della Juventus, ha dato una risposta sorprendente e dura: “non c’è stato il calcio in questo periodo, c’è stata solo la Juve”. Solo un friulano, uno nato e cresciuto in una terra di confine, poteva dare una risposta così chiara e netta, senza curarsi di dare un qualsiasi appiglio a chi volesse dedicarsi alla pratica sillogistica. Capello ha detto chiaramente come in questi ultimi anni il campionato italiano sia stato un deserto popolato dalla Juventus, e l’accusa agli eventuali competitor che avrebbero dovuto esserci e non ci sono stati è stata spietata. È quasi un invettiva di poche parole, ma per i friulani due parole sono già un assembramento verbale, operata a difesa e per amore di un calcio a cui l’allenatore di Pieris sa di dovere tutto il significato della propria esistenza. Perdere tempo a cercare di trovare un sillogismo credibile all’ ingiustificato enorme spazio dato alla società di Andrea Agnelli, deve essere sembrato intollerabile ad un uomo sicuramente dal carattere ruvido e controverso, ma mai banale. Alternative possibili allo strapotere bianconero sicuramente esistevano, e qualcuno avrebbe avuto il dovere di trovarle. La stampa avrebbe dovuto rendere difficile la vita ad una Federazione ed ad una Lega indifferenti al problema, ma si è scelta la strada dell’impotenza e dell’omissione. “L’impresa ha bisogno di investimenti per vincere sul mercato, una società di calcio è un’impresa, la Juventus ha investito e ha vinto”, altro sillogismo perfetto per nascondere ogni tipo di misfatto, ed elevare quasi a scienza economica esatta l’operato dei bianconeri. E giù il coro quasi unanime della stampa nostrana, a descrivere quanto siano state mirabolanti le abilità dei dirigenti alle dipendenze di Agnelli nel portare un club dalla modesta vocazione nazionale nell’alveo delle multinazionali dello sport mondiale. Lo dicono i giornalisti, lo dicono gli analisti dei fondi di investimento, lo dicono i politici, quindi è giusto lo pensi anche la gente comune.

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“La scienza ha la necessaria autorevolezza per giudicare e classificare le cose del mondo, il “Manifesto della Razza” fu redatto da dieci tra i migliori accademici d’Italia, quindi gli ebrei sono biologicamente diversi dalla razza italica”; questo sillogismo racconta forse la più grande vergogna della storia d’Italia, dove al punto nove del manifesto si stabiliva come gli ebrei non appartenessero alla razza italiana, e dove al punto tre si sottolineava il concetto di razza come concetto biologico. La scienza lo aveva sancito inequivocabilmente e un grande giornale come il “Corriere della Sera”, voce dell’establishment e della ricca borghesia, lo controfirmava nella sua prima pagina dell’undici novembre del 1938. Furono meno di dieci, su 1250, gli accademici a rifiutarsi di firmare quello scempio arrecato alla storia di tutti gli italiani di ieri e di oggi. Gli fu tolta la cattedra e il diritto alla liquidazione e alla pensione. Non era in gioco la vita, ma l’onore e la dignità, nonché la credibilità della stessa scienza. 1243 accademici rinunciarono a tutte e due le cose, legittimando l’aurea scientifica del provvedimento contro gli ebrei, conservando così carriera e vantaggi dal regime. Artisti, scrittori, sportivi, tutte persone in vista che avrebbero potuto dire qualcosa, e fermare quel crimine di stato: ma tacquero. La scienza, in fondo, li copriva. Il sillogismo aveva centrato perfettamente il bersaglio, e alla gente comune non era rimasto che diventare antisemita.

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Aristotele andava veloce tra il teorizzare e il concludere, viveva nel suo mondo ideale impossibilitato nel vedere troppo avanti nella storia umana. Impedito dall’immaginare qualcosa come il nazismo o il fascismo. Il problema di un’altra scelta sempre possibile, probabilmente si impose come argomento solo con l’avvento della società moderna, complessa e interconnessa per definizione. Quintino Sella fu un personaggio difficile da decifrare, ma sicuramente una persona perbene e costantemente guidato dal voler il bene dell’Italia, che ai tempi del suo mandato come ministro delle finanze di ben tre governi della destra storica (siamo negli anni che vanno dal 1862 al 1873), si stava ancora, nella testa degli italiani, costruendo come Stato unitario. Sella era uomo di profondi studi e rigoroso, tanto da essere considerato in Italia e all’estero uno dei migliori uomini di scienza del suo tempo. Persona compassionevole nei sentimenti personali, era capace di metterli da parte se riteneva gli interessi dello Stato venire al primo posto. Portò avanti la legge sulla “Tassa sul Macinato”, ovvero la tassa sulla macinazione del frumento e dei cereali, convinto come fosse il metodo più sicuro per recuperare denaro al fine di far raggiungere al Regno d’Italia un sospirato “pareggio di bilancio”. Sella era un fine matematico, e probabilmente la scienza matematica e le ragioni d’opportunità lo convinsero a perseguire l’idea della legge italiana più odiata di sempre dalle classi popolari. Le quali, in quella seconda metà dell’ottocento, si alimentavano soprattutto di pane, arrampicatosi improvvisamente a vette di costi insostenibili grazie all’imposta sul macinato. C’erano,nin quel momento, altre scelte da poter fare per raggiungere il pareggio di bilancio? La storia dell’economia oggi, anch’essa scientificamente, afferma di sì.

Si sa come non sia consigliabile un senno di poi nello scorrere dell’esistenza, perché esso genera solo inutili rimpianti. E ovviamente in questa sede non si vuole assolutamente affermare l’inutilità della scienza o affibbiarle il carattere di imbonitrice, si vuole solo avvertire, in relazione al suo comportamento con il Covid-19, di non farla assurgere come valore assoluto, ma piuttosto usarla come straordinaria chiave di lettura di questi ultimi terribili mesi. Occorre avere grande fiducia nella scienza, senza però trasformarla nel “Pifferaio di Hamelin” da seguire ad occhi chiusi. Essa, prima di elevarsi a certezza, dovrebbe dimostrare le proprie ipotesi, e non rinchiudere in ostaggio la politica, costretta così ad azzerare preziosi diritti individuali. È pericolosissimo come la grande stampa, tg televisivi in testa, non siano stati attraversati da dubbi e non abbiano cercato alternative alla paura (ma dove sono finiti i poteri terzi?). È incredibile come nessun artista abbia provato a ribellarsi ad essere usato come cassa di risonanza di un pensiero unico al servizio dell’ipotetico. Il clima, dispiace ribadirlo, è proprio quello del ‘38 e delle sue leggi razziali, dove si pretese di far assurgere a scienza una colossale truffa ideologica, con solo sette eroici accademici ad opporre un fiero rifiuto. In una trama di un romanzo distopico, ove si narrasse la vittoria delle forze dell’Asse, quei sette docenti finirebbero in miseria e con il disprezzo persino di gente sprovvista di una qualsiasi lettura decente. Ma la storia a volte ha una sua giustizia, quella stessa storia che potrebbe essere maestra, ma purtroppo perennemente sprovvista alunni. “Dove trova un uomo la forza per arrivare alla fine della corsa?”, recita una bellissima battuta di un film Premio Oscar. Ecco, forse sarà il caso di provare a rispondere a questa domanda, ma per favore… niente sillogismi stavolta.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

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