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Se un Papa parla di calcio

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Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "Perdo eppure amo, soffro eppure gioisco, mi rassegno eppure spero"
Anthony Weatherill

“C’è un momento per ritirarsi prima

che lo spettacolo diventi grottesco”?

Osvaldo Soriano

 

“Il gioco del calcio è una sorta di tentato ritorno al Paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello”. Questa riflessione di Joseph Ratzinger, 256esimo Pontefice della Chiesa Cattolica, può essere sorprendente per chi del religioso tedesco, considerato uno dei più grandi pensatori del 900, ha sempre avuto l’idea luogo comunistica di un cerbero tedesco, eccessivamente serioso e rigido. In realtà non era la prima volta che Joseph Ratzinger, in buona compagnia di numerosi intellettuali, affrontava il tema “calcio”. “Uno sport di una tale grandezza – continuava nella sua disamina il futuro Benedetto XVI - , che se andiamo nella sua profondità può darci di più che un po’ di divertimento”. Queste riflessioni appena citate erano contenute in un libro pubblicato nel 1985(“Cercate le Cose di Lassù”) dall’allora cardinale, il quale non era nuovo a trovarsi a fare un analisi sul gioco più affascinante e seguito al mondo.

Osvaldo Soriano, indimenticato giornalista e scrittore argentino, sosteneva che c’erano dei tipi di calciatori che riescono a creare spazio dove non dovrebbe esserci nessuno spazio. Leggendo e rileggendo questa considerazione di Soriano, ogni volta ho come la sensazione di non averci ancora capito nulla del calcio. Come se ci fosse qualcosa di talmente misterioso a riportarmi con la mente a qualcosa appartenuta ai primordi della formazione del comune sentire umano. Ma su cosa si fonda il potere di questo gioco che, secondo Ratzinger, ha assunto nel tempo la stessa rilevanza del pane? E’ difficile saperlo, ed è forse per questo che in un’altra occasione, precisamente alla vigilia dei campionati del mondo in Argentina del 1978, l’attuale Papa Emerito, in un intervista radiofonica, sentì il bisogno quasi di elaborare una sorta di difesa teologica degli ultras del calcio. “Ciò che colpisce dei tifosi, in un contesto di narrazione sportiva dove sono solo poche le squadre a contendersi ogni tipo di vittoria, è l’amore infinito e irrinunciabile di  tutti quei tifosi di quelle squadre che regolarmente non vincono alcun trofeo o campionato. E’ un modo, questo, di vivere l’amore in modo totalmente gratuito, senza aspettarsi di avere per forza qualcosa in cambio”.

Capisco perché questa cosa allora abbia colpito il presbitero Joseph Ratzinger, infatti non esiste niente di simile in nessuna delle attività o credenze umane conosciute. Perdo eppure amo, soffro eppure gioisco, mi rassegno eppure spero. Sembra che il calcio abbia in sé tutto il senso di una vita che a volte può anche farci soffrire terribilmente, ma verso la quale difficilmente potremmo sostenere sul serio e con convinzione il sarebbe stato meglio non ci avessi chiamato a partecipare. Questo sport ha il potere di farci frugare nel superfluo, per buttarlo via e ritornare, almeno per novanta minuti, all’essenziale. Ma il capolavoro del pensiero ratzingeriano sul calcio è quando affronta la perversione che nel controverso mondo post moderno sembra essersi fatto largo nelle vicende dello sport più amato e popolare del mondo: “essi(i calciatori) sanno che gli uomini(i tifosi) rappresentano in loro se stessi e si sentono confermati. Naturalmente tutto ciò può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il calcio da gioco a industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose”. Nel 1985(e sottolineo 1985), quest’uomo dalla cultura senza fine e dalla spiritualità profonda tipica degli uomini semplici, aveva intuito come nel caos generato dall’eccessivo Ordoliberalismo propagatosi a macchia d’olio in tutta la cultura e le attività umane occidentali, con il suo “laissez faire” eletto a stella polare di ogni azione degli uomini di questa parte di mondo, anche il calcio avrebbe finito per essere stravolto da una teoria economica palesemente imperniata sull’obiettivo del lavoro-merce che mira, e in parte ormai ci sta tristemente riuscendo, a prendere il sopravvento sulle Costituzioni sociali contemporanee fondate sul lavoro. Oggi siamo di fronte, anche nello sport, alla rivincita del “governo del mercato” sull’intera società occidentale(e fa impressione come questo stia avvenendo nell’Europa madre di tutti i diritti del “Welfate State”). Questo, pensate un po’, il futuro Papa Benedetto XVI lo aveva avvertito come pericolo persino nello sport,  ben quattro anni prima della caduta del Muro di Berlino. Il timore ratzingeriano pare aver trovato, purtroppo, una sua forma fattuale ogni qual volta capita di sentire parlare solo di “gestione aziendale e fatturato” da parte di presidenti e manager di società di calcio, invece di progetti sportivi atti a coinvolgere “quell’amore gratuito” dei tifosi a cui ogni fortuna il calcio deve. Nella filosofia del “laissez-faire” ormai dominante anche nei piani alti dello sport mondiale, è diventato normale accettare che un calciatore possa essere pagato più della costruzione di un nuovo stadio. “E’ la libertà donateci dal libero mercato con la sua legge della domanda e della offerta” direbbe qualcuno, obbligandoci ad assentire, per non sentirci fuori dal tempo, a questo nuovo paradigma della libertà. Pier Camillo Davigo, uno dei magistrati reduci dell’inchiesta milanese di “Mani Pulite”, in una recente intervista ha sottolineato come “ci si dimentichi sempre di una cosa: la libertà personale non è un diritto disponibile. Altrimenti uno potrebbe vendersi come schiavo”.

A sottolineare come in nome di un supposto concetto errato di libertà, si può anche a giungere a ritenere di poter agire oltre ogni limite consentito dal buon senso e dalla natura delle cose. Ecco perché esiste il diritto che, è opportuno ricordare, è nato soprattutto per proteggere i deboli e non i forti. E’ quasi banale aggiungere come quest’ultimi non abbiano bisogno di un codice condiviso super partes a portare ordine nelle cose umane. Nel terribile mondo fittizio interpretato dagli affari e ammonito da Ratzinger, sembra non esser dato più spazio ai reali motivi per cui il calcio è nato, quello spirito per cui amiamo il gioco sin da bambini. “Esso – ci ricorda colui che fu professore di teologia dogmatica presso l’Università di Tubinga – ha anche il carattere di esercitazione alla vita. Simboleggia la vita stessa e la anticipa in una maniera liberamente strutturata. A me pare che il fascino del calcio stia essenzialmente nel suo saper collegare questi due aspetti in una forma molto convincente”. Forse non è un caso come uno dei più importanti e influenti intellettuali degli ultimi cento anni, un bel giorno abbia sentito il bisogno di ragionare su un gioco così tanto amato da miliardi di persone, in una catena generazionale impressionante solo se la osservassimo. Il calcio impostato a categoria dello spirito dal religioso tedesco, assurge così a ciò che veramente è: un bene comune del quale ognuno non può farne qualcosa liberamente, per buona pace del “laissez-faire”. L’amore gratuito di cui i tifosi sono portatori sani e che li vincola in eterno alla squadra del cuore, è un patrimonio a cui ogni presidente di una squadra di calcio dovrebbe rendere conto. Un patrimonio verso il quale ogni dirigente della Federcalcio dovrebbe essere teso a lavorare. Non è proprio accettabile lasciare alla filosofia ordoliberalista il permesso di prevaricare sui principi costitutivi del calcio. E’ seriamente preoccupante come la classe intellettuale, spesso segno dello stato di salute dei tempi, non senta il bisogno di opporsi allo sfruttamento dello sport operato da potenti multinazionali in associazione di spregiudicati uomini d’affari. E’ imbarazzante come nessuno denunci l’evidente complicità di un’emittente televisiva, Sky, che di fatto, in cambio di sempre più lauti profitti,  si sia offerta come cassa di risonanza di coloro che hanno fatto diventare il mondo del gioco una semplice macchina macina profitti. Nessuno, dico nessuno, che abbia mai provato a mettere un argine a questa vera e propria appropriazione indebita di un valore di molti da parte di pochi.

“Ma forse – scrive Ratzinger – potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. Perché neppure questo mondo fittizio (quello dei soldi e degli affari) potrebbe esistere senza l’aspetto positivo che è alla base del gioco: l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del Paradiso perduto”. Il calcio come un tentato ritorno al Paradiso, questo è quello di cui ci parla Benedetto XVI. Davvero vogliamo far mettere definitivamente in vendita una cosa così? Ad ognuno di noi il compito dell’ardua risposta.

 

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

 

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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