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Si cambia per forza, ma non scorderò

Maria Grazia Nemour
Sotto le Granate / Torna la rubrica di Maria Grazia Nemour: "Nessuno si immagina di vedere allo stadio un nuovo Grande Torino. È sano prendere atto che si diventa altro, ma lo è altrettanto non dimenticare di essere fatti di quello che amiamo"

Quando il momento migliore della partita, è l’intervallo, siamo messi male. C’è poco da fare.

Domenica sera è andata così, l’unico istante in cui ho sentito che volevo davvero essere lì al Grande Torino è stato quando lo stadio si è acceso di centinaia di lucine, brillavano la Maratona e la Primavera, e i Sensounico cantavano “Quel giorno di pioggia lo schianto nel cielo, che spense in un lampo il Grande Torino”. Luci di cellulari, che ormai di fuoco che arde non sono più i tempi, mannaggia. E poi la voce fuori campo che scandisce l’appello: Bacicalupo, Ballarin…

E domenica sera aggiungiamoci pure un secondo momento topico, quello in cui Sirigu para il rigore calciato da Luis Alberto. L’emozione del rischio altissimo fermato dalle mani del miglior portiere della serie A. Un’emozione che sicur-Sirigu ci aveva già regalato contro il Bologna e la Fiorentina. I rigori non li sappiamo calciare, ma parare sì. Senza Sirigu ne avremmo presi almeno tre di gol, domenica. Stesso risultato con l’Inter e compagnia cantando.

Il problema è che il quarto d’ora granata non può consumarsi nell’intervallo della partita. Sono minuti fatti per essere vissuti in campo, bruciano lì. Diavolo, vedevo Molinaro camminare sulla fascia, guardare il pallone perso e portarsi le mani alla testa e avevo una voglia matta di scavalcare e provare a prenderlo io, quel dannato pallone, perché fino a che sta dentro la linea è da giocare, tutto da sudare. Darlo già per uscito dentro alla testa non è accettabile. Come non è accettabile il timore di giocarlo quando ce l’hai al piede, il pallone. Non è accettabile l’assenza di veemenza che davanti a un avversario indubbiamente più forte ti permette comunque di vincere qualche contrasto, e strappa applausi a chi ti spinge col respiro dagli spalti.

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Venerdì sarà di nuovo quattro maggio. Non è il momento dei contrasti perché è inviolabile, il quattro maggio. Non si può sporcare. Ma l’ascesa a Superga è liturgia del pensiero granata: chi siamo, cosa facciamo, dove stiamo andando.

“Quel giorno di pioggia non pioverà più, col tempo si cambia, e cambierai tu, si cambia con forza o forse non so, si cambia per forza ma non scorderò”. È questo il quattro maggio, cambiare senza scordare.

Nessuno si immagina di vedere allo stadio un nuovo Grande Torino, siamo nati tardi per quello. È sano prendere atto che si diventa altro, ma lo è altrettanto non dimenticare di essere fatti di quello che amiamo.

Il quattro maggio ascolteremo di nuovo l’appello di chi manca, quello che conosciamo a memoria. È un onore dare la voce a quei nomi e il Capitano ne ha titolo, certo. Ma anche i tifosi ne hanno titolo, e forse dovremmo essere proprio noi a nominare chi merita di scandire la nostra storia. O forse dovrebbero deciderlo i giocatori nello spogliatoio, guardandosi in faccia e chiedendosi: chi di noi ha dato tutto il sangue che aveva in corpo in questo campionato? Contiamo le gocce rimaste, dai.

Forse N’koulou, che è stato granitico tutto l’anno e quando domenica per la prima volta ha traballato, ci ha fatti tremare tutti.

Forse Moretti, che dei suoi anni gioca tutta la conoscenza, fisicità ma anche rispetto.

Forse Sirigu, il portiere che ci scegliamo da qui all’eternità.

Forse Edera, che scende in campo con tanta fame di futuro Toro.

Forse Belotti, consapevole dei tempi di recupero dell’infortunio così come dei suoi limiti tecnici, da sempre compensati dalla determinazione di andarsi a prendere il pallone e provare a portarselo davanti alla porta.

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Forse Lorenzo capo-ultrà dei piccolini, vecchio cuore granata di tre anni.

Il Toro dovrebbe salire a Superga con la promessa di nove punti, le partite che mancano. Nove punti che non serviranno ormai a nulla, la ragione dice così,  ma il cuore gli risponde che quei nove punti fanno Grande Torino, fanno quelli che giocano finché c’è partita e quei punti se li portano a casa proprio perché sono delusi di non aver fatto molto, molto di più. Niente fiori ma azioni ben riuscite, dice il Grande Torino, grazie.

Si cambia per forza, ma non scorderò il movimento che ho dentro: battito del cuore Toro.

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.