“C’è poca fiaba nella tua vita”
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Loquor
Sinner non si presenta al Quirinale
Raffaele Morelli
Quando si odia o si ama molto qualcuno diventa quasi impossibile discuterne serenamente, perché questo scatena reazioni esagerate, aggressive e sovente fuori controllo. I tifosi del Toro lo sanno bene, a causa del fatto che da qualche anno si trovano a dover ragionare sulla figura di Urbano Cairo, che sta facendo letteralmente ammattire tutta la tifoseria Granata a causa della sua insipienza nella gestione del club. Lo sport è una vetrina talmente grande e colma di luce, che dona ai suoi protagonisti molti onori ma anche qualche onere. Si può sfuggire agli oneri? Siamo fortunatamente in un regime di libertà, e quindi certo che uno può anche disattendere gli oneri. Ma quando si è dei simboli bisogna stare attenti nel farlo, perché come ricorda Giovanni Paolo II nella vita si ha anche “l’avere il diritto di fare ciò che dobbiamo”. Il tennis è lo sport che amo e capisco, mentre del calcio ho semplicemente una conoscenza da tifoso da bar, ecco perché l’avvento di Jannik Sinner nell’agone internazionale dello sport della racchetta mi ha fatto più che piacere, la considero quasi una benedizione. Erano anni che gli appassionati di tennis, quelli per cui il gioco non è uno scontro da tifo ma una appassionata elegia verso l’eccellenza, aspettavano un momento simile. Nei circoli ogni volta che si guardava il ranking mondiale dell’ATP c’era una sorta di rassegnazione, quasi il prendere atto come ci fosse un oscuro arcano o sortilegio ad impedire ad un talento italiano di fiorire negli alti livelli dello sport più planetario e universale, impostosi sin dal primo decennio del secolo scorso. Il calcio ancora era poco più di una promessa, quando Suzanne Lenglen e Helen Wills Moody si sfidarono al “Carlton Club” di Cannes in quella che fu definita da tutti i principali giornali del mondo “la partita del secolo”.
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Tutti i tremila biglietti disponibili furono venduti a trecento franchi e andarono rapidamente esauriti. Dopodiché agli appassionati non rimase che accaparrarsi dei “posti” sui tetti delle ville adiacenti al “Carlton Club” per cento franchi. Alla fine rimasero solo gli alberi su cui arrampicarsi, e andarono presto “esauriti” anche quelli. Stiamo parlando di una partita tra due donne all’inizio del secolo scorso, con la Lenglen eletta dalla stampa mondiale a “donna più desiderata di Parigi”. Persino più di Josephine Baker e di Sarah Berhardt. La tennista francese introduceva il glamour nel tennis, facendolo diventare rapidamente anche un fenomeno di costume a da riviste patinate. Tutto ciò racconta il carattere di uno sport apprezzato e compreso in ogni angolo del globo, e fuori da ogni logica da tifo esagerato degli sport di squadra. Il “fenomeno” Sinner si è abbattuto come un ciclone sull’Italia e si è innervato nella mentalità “contradaiola” che ci contraddistingue, facendo perdere la sinderesi ad un popolo desideroso ogni volta di manifestare la sua aurea da “Palio”.
Essendo l’unico sport veramente planetario, ovvio come il suo “numero uno” attiri molte attenzioni e interessi, e faccia confluire con molta facilità sentimenti di empatia nei suoi confronti. Vedere una finale del torneo di “Wimbledon” suscita uguali empatie da Shanghai a Roma, passando per Melbourne. Il “Centrale” più iconico del mondo crea messaggi che giungono dritti al cuore da quell’esperanto che è il tennis, e rendono i campioni di questo sport patrimoni nazionali inestimabili. Non hanno praticamente prezzo a livello di immagine. Divenuto all’improvviso un brand appetibile, al campione bisogna subito accoppiare degli ideali ridondanti di modelli di vita. Compiuto l’accoppiamento, a questo punto la potenza del marketing, con tutte le sue sineddoche e metonimie, comincia a martellare senza sosta il cervello e il cuore di colui divenuto tifoso del campione. Occorre creare il legame, che verrà sfruttato per compiere qualsiasi cosa si ritenga necessaria, fosse il business o l’accentuazione dell’amor patrio. Rubare un sorriso, una lacrima, un ricordo o una speranza, questa è la mission di chi occupa di dare eternità ad ogni gesto del campione. Il legame, quando si salda, è difficile da mettere in crisi e quasi impossibile addirittura slegarlo, ecco il motivo per cui il “legato” non accetta minimamente che il suo idolo possa essere attraversato dall’ambra della critica.
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Il “legato” si costituisce come guardiano della rivoluzione del campione, che non ha una “maglia” da difendere come negli sport di squadra, ma esclusivamente lo sciovinismo e l’anima contradaiola di una Nazione. In tale contesto esistenziale, è perfettamente logico considerare normale l’assenza di Jannik Sinner all’incontro al “Quirinale” tra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il tennis italiano. Qualcuno arriva a scrivere o a dire come il tennista altotesino conti di più del Presidente, e quindi è giusto che riposi le sue stanche membra dopo aver vinto davanti alle “Porte Scee” degli “Australian Open” il suo ennesimo duello contro l’ennesimo “Ettore”. C’è da chiedersi a volte dove sia finito il discernimento dalle nostre parti, stiamo teorizzando un curioso lasciapassare per fare qualsiasi cosa ai nostri idoli; è forse questa la conseguenza principale della società dello spettacolo? C’è della mistificazione, a mio parere, su come stiamo gestendo le emozioni dei successi, preziosi, di Jannik Sinner. Li interiorizziamo galvanizzandoli, li amiamo senza comprenderne fino in fondo il senso, li abbracciamo esonerando il tennista dall’obbligo di passare attraverso il “confessionale” della vita. Lo si è praticamente battezzato come persona senza peccato originale e incapace di macchiarsi di qualsiasi colpa. Elevare uno sportivo al di sopra di un Presidente di una Repubblica o di un re, simboli di unità nazionale, dovrebbe preoccupare sullo stato di salute esistenziale di una comunità. E invece niente: leggi i commenti sui social, e tutto pare perfettamente normale e auspicabile. Un Presidente della Repubblica, in questa disgraziata nazione, pare contare meno del numero uno del mondo del tennis. In un importante festival internazionale di cinema avevo fatto amicizia con un attore danese, divenuto all’istante sodale quotidiano di quei giorni festivalieri. Era una persona ironica e dedita al cazzeggio, e ci siamo molto divertiti cercando di prendere tutto non molto seriosamente.
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Dopo aver ritirato il premio come migliore attore protagonista, ci dedicammo ai bagordi fino a quasi l’alba. Eravamo un pò assonnati il giorno dopo a pranzo, ma ad un certo punto l’amico danese ricevette una telefonata, e qualche attimo dopo scattò in piedi come se avesse avuto incorporata una molla nel deretano. Era la Regina di Danimarca che chiamava per fargli i complimenti, a nome di tutto il Paese, per il premio ricevuto. Pur se ovviamente la Sovrana non poteva vederlo, l’attore danese rimase sull’attenti per tutto il tempo della telefonata. Si chiama senso dell’onore e rispetto per una figura che rappresenta l’unità di una Nazione. Quando ci si rapporta con questa autorità, non si omaggia o si mostra deferenza alla persona che la incarna, ma si va a fare un incontro doveroso con un Paese intero. “Sta vivendo una situazione di stress al limite dell’umano- ha provato a giustificarlo Angelo Binaghi-… tutti vogliono batterlo… non può più prendere una Coca Cola al bar o chiedere dove è il bagno… e poi lui è troppo disponibile con tutti”. Non so come catalogare queste esternazioni del Presidente della “FederTennis”, non so come rapportarla a chi vive lo stress di una catena di montaggio o di una profondità di una miniera, non capisco che modalità di difesa sia. Si tratta semplicemente di stabilire una cosa: posto che uno sportivo o chiunque altro è libero di fare quel che vuole, e ci mancherebbe altro, è lecito, eticamente e moralmente, ignorare l’invito della più alta carica di uno Stato? A chi passa tra queste righe affido l’ardua risposta. Ma con la dovuta calma, e tenendo presente come andare ad omaggiare il Re o la Regina nel suo castello sia il lieto fine di parecchie favole.
Di Carmelo Pennisi
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