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Sinner, Paolini e gli altri otto

Sinner, Paolini e gli altri otto - immagine 1
Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Cercavo di fare il tennista. Ma ho avuto due

anni giovanili di impotenza psichica parziale”.

Gianni Clerici

Prima o poi doveva arrivare un momento così nelle vicende del tennis italiano, e non mi riferisco solo alla vetta del ranking ATP raggiunta da Jannick Sinner, ma anche all’avere 9 italiani nei primi 100 del ranking e Jasmine  Paolini nelle prime dieci del ranking WTA. Un uomo e una donna contemporaneamente nei primi dieci delle due classifiche non li avevamo mai avuti. Perchè un momento simile doveva prima o poi capitare in Italia? Semplice, perché il tennis è da sempre uno degli sport più praticati nel nostro Paese, e semmai strano è stato non avere avuto una nidiata del genere prima nella oltre centenaria storia dello sport della racchetta per eccellenza. Ricordo alcune conversazioni avute con Gianni Clerici, principe degli scriba dello sport dei “guanti bianchi”,  molto preoccupato del problema della scomparsa dei gesti antichi e del problema delle racchette moderne, simbolo di una potenza che aveva avuto il potere di stravolgere il gioco di massa popolare più antico del mondo.

Clerici era uomo di profondissima cultura e mal avrebbe sopportato questa sarabanda di commenti da tifo da stadio su Sinner, a cui tuttavia, appena quindicenne, aveva previsto un luminoso futuro “nonostante non avesse un gioco di volo all’altezza. Ma potrebbe correggersi con il tempo grazie agli insegnamenti di Riccardo Piatti”. Vedeva nell’altotesino una semplicità estrema nel portare alcuni colpi, come fossero dentro di lui sin dalla nascita e un talento mai visto nemmeno in un sedicenne Nicola Pietrangeli. Però il suo cuore batteva per Roger Federer, perché nel tennis i gesti devono essere belli e il pubblico al massimo fa un “ohhhh” e poi batte aristocraticamente le mani. Non c’è posto per il tifo da stadio per chi ama questo sport e sul serio lo ha capito. Quando l’altro giorno, dopo la conquista della vetta del Ranking da parte di Sinner per defezione fisica di Djokovic, mi sono giunti una moltitudine di messaggi che più o meno dicevano la stessa cosa, ovvero come tutti i latori avessero scommesso quasi sin dall’infanzia sul grande avvenire del tennista azzurro, ho avuto una sorta di risposta parziale  sul perché uno sport così praticato non avesse avuto una relativa nidiata di campioni nel tempo: siamo un popolo che viviamo di aspettative e non di fatti, e questo se si pratica il tennis può essere dannoso come atteggiamento mentale per le prestazioni. Insomma, l’humus socio/esistenziale che ci circonda non favorisce l’affermazione di un talento tennistico presente in nuce. Quando si arriva ad una certa età, diciamo dopo aver superato i cinquanta e se hai raggiunto una certa conversazione quotidiana con la saggezza, si tende a liberarsi del sovrappiù, perché molte cose o sono inutili o tendono di finire in tragedia, e quindi anche il rapporto con lo sport cambia e cominci a vederlo per quel che realmente è: una bisboccia semantica continua con gli affetti e una geografia della memoria del mondo. “Per lungo tempo, dopo aver abbandonato il tennis giocato in giro per il globo-ha raccontato una volta Clerici-, sono stato il figlio privilegiato del padrone. Ma non mi divertiva”. Era una Italia, quella del Clerici tennista, piena di scelte e di varie gradazioni di futuro, e soprattutto di maestri,e capitava di avere pigmalioni di giornalismo come Gianni Brera, Mario Soldati e Giorgio Bassani, e tutti contemporaneamente. In questo contesto intenso e lontano anni luce dall’arroganza contemporanea favorita da un internet capace di radere al suolo anche il concetto del famoso quarto d’ora di celebrità di Andy Wharol, il bravo cronista si aggirava tra i campi di gioco per cercare di capire se prima o poi la madrepatria ci avrebbe regalato il campione agognato per andare a vincere sull’erba che conta, da non confondere con quella di Wembley perché è di quella di Wimbledon che si sta parlando. Passavano le generazioni e le speranze e i campioni, a parte le apparizioni contraddittorie  di Adriano Panatta e Nicola Pietrangeli, proprio non volevano arrivare. Lo “Scriba” un giorno, di fronte al bussolotto che aveva fatto uscire quattro croati nelle semifinali di uno “Slam”, era sbottato in una delle sue iperbole da intellettuale prestato allo sport: “sono in semifinale perché i loro avi erano i fanti di marina della Repubblica di Venezia, perché erano quelli con più palle e solidi di tutti”.

Nessuno ebbe il coraggio, in quel momento di sconforto, di rammentargli come Venezia sia italiana e come anche dalla “Laguna” tardasse ad arrivare il sospirato parto del campione tanto atteso. Nel mio mestiere la cosa più interessante e affascinante è l’incessante propensione a sapere il più possibile degli altri e di come hanno vissuto i loro fatti, è una pratica quotidiana alla stessa stregua del mangiare, del bere e del dormire. Ti immergi in biografie e notizie e cerchi di capire o almeno di ipotizzare in modo credibile, e non vuoi lasciare nulla al caso in questo tentativo consuetudinario. Scrivere non è semplicemente fare parlare un altro, ma è farlo parlare attraverso di te. A volte vorrei avere davanti Paolo Canè, Andrea Gaudenzi, Stefano Pescosolido, Gianni Ocleppo e tanti altri tennisti italiani scorsi davanti ai miei occhi e non vorrei sentirli parlare, ma vorrei interpretare i loro pensieri e spiegare il loro “fallimento”, relativo ovviamente, come se a parlare fossero loro. Cercherei di capire cosa non abbia funzionato nella testa di ponte di uno sport con quasi 700.000 tesserati. Una enormità. Saranno mancate le giuste motivazioni? Nel tennis, si sa, la questione psicologica conta il 50% nel percorso verso la vittoria. Clerici si rammaricava molto di non aver avuto per tempo la sufficiente autostima per considerarsi romanziere, e una volta si seccò molto perché era riuscito a vendere, in uno stand di una delle tante fiere dedicate al libro, cinque copie della sua ultima fatica narrativa solo perché alcune persone lo avevano riconosciuto come personaggio televisivo: “la mia identificazione pubblica  è con uno che parla alla televisione. Quindi è un po’ scoraggiante. Forse no, magari dovevo fare il televisivo, Ma è colpa mia. Uno deve prendere delle decisioni”. Prendo queste parole dello “Scriba” e le sovrappongo alla determinazione dei nostri dieci tennisti/e al momento ben classificati nel ranking, e allora un malevolo pensiero alla Marshall McLuhan mi attraversa la mente: sarà la visibilità conquistata dal tennis nelle piattaforme tv ad aver fatto trovare le giuste motivazioni ai nostri tennisti per coltivare il talento nel modo giusto? E’ quindi il narcisismo la chiave di tutto nell’Italia contemporanea? Abbiamo voglia di essere protagonisti solo perché siamo visti? Quanto c’entra questo con il tennis e lo spirito dei suoi dei? Poco, direi.

La Svizzera padre e madre di Roger Federer è chiaramente un colpo di fortuna(o di culo, tanto per rendere omaggio a Trilussa), ma se guardi Sinner sai come lui sia il terminale di un lungo percorso compiuto dal tennis italiano, spesso non baciato dalla gloria ma sostenuto da una passione proveniente dai circoli di tutta Italia. Lo guardi e gli occhi ti si illuminano di speranza  come quando lo “Scriba” si trovò davanti un sedicenne Nicola Pietrangeli in un torneo di “Seconda Categoria”, che per lui poteva valere un accesso alla tanto agognata “Prima Categoria”: “non potei fare a meno di guardarlo. Come avevo fatto con oggetti di autentica meraviglia, il San Giovanni Battista di Caravaggio, la frase di Proust sulla Marchesa di Guermantes, lo stop al volo di uno ormai decrepito Meazza. Lo guardai con gli occhi di chi già capiva di essere uno spettatore”. Lo “Scriba” si risvegliò da quell’incanto quando fu trafitto da un passante sublime, che ancora i più anziani soci del Tennis Club Parioli ricordano. Ho sempre amato il tennis come la donna perfetta da sempre cercata, ne ho intuito i sospiri prima che questi arrivassero, mi sono fatto accarezzare dai suoi colpi leggeri e dal suono delle sue corde tese. Solo su un campo da tennis ho avuto la sensazione di essere una persona compiuta e padrona del suo destino. Amo questo gioco come non potrei mai spiegare, scorre nelle mie vene e racconta la mia vita, e sospiro e spero che da questa nidiata di giocatori, a partire da Jannick Sinner, possa finalmente giungere il sogno sportivo più grande e ambizioso che sto aspettando da quando ero solo un bambino, ovvero che un italiano/a possa finalmente riempire di azzurro il prato di Wimbledon e alzare il “The Gentlemen’s Singles Trophy” o il “The Rosewater Dish” verso il cielo di Londra. E sapete una cosa? In fondo non mi importa dei motivi per cui fino ad ora non lo abbiamo mai vinto, so solo che il mio bellissimo Paese merita questa gioia. E sono sicuro che, da qualche angolo di cielo, in questo momento lo “Scriba” sia assolutamente d’accordo con me.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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