columnist

Il diritto allo Sport e lo Sport del diritto

Maria Grazia Nemour
Sotto le granate / "Lo sport non è per persone che si accontentano, ma per quelle che rivendicano ogni diritto conquistato sul campo"

Sono passati più di cent’anni da quando le donne inglesi, rimaste senza mariti partiti per il fronte, vengono chiamate nelle fabbriche per costruire munizioni. Munitionettes, le chiamano. Le donne dalla pelle gialla – canary girl – sporcata dalla nitroglicerina. Le Munitionettes nel tempo breve di qualche mese rivoluzionano la società inglese: per la prima volta si chiudono dietro alle spalle la porta di casa per andare a lavorare in fabbrica, diventano l’ossatura dell’economia di guerra britannica e, proprio come gli uomini, ricercano lo spazio per un dopo-lavoro che renda la giornata più sopportabile: si organizzano squadre di lavoratrici, si tira fuori dall’armadio di qualche marito al fronte un pallone e…si gioca a calcio!

Il primo derby tra fabbriche è del Natale del 1916. Il primo ministro David Lloyd George si accorge immediatamente che queste sfide sono un’occasione per raccogliere fondi in favore delle tante emergenze sociali da soddisfare in periodo di guerra, e sostiene le iniziative. Dopo tanto tempo, negli stadi si torna a giocare a calcio, quello femminile, di calcio. Nel 1918, la finale della MunitionettesCup raccoglie trecento mila sterline a sostegno degli ospedali della città. Nascono le prime sfide internazionali femminili, l’Inghilterra gioca contro la Francia.

Ma è il 1920, la guerra ormai è finita, gli uomini sono tornati dal fronte. Alcuni. Qualcuno inizia a pensare che le donne debbano tornare dentro le case, in cucina, togliere i pantaloni da calcio e fare un bel fiocco al grembiule. Nel 1921 la FA diffida i club dell’Associazione a far giocare squadre femminili sui campi affiliati. Scrivono i tecnici della Federazione: il calcio è uno sport che risulta piuttosto inadatto alle donne e non dovrebbe essere incoraggiato, stante il rischio di seri problemi fisici.

 

Cent’anni dopo, la nostra Capitana della nazionale femminile Sara Gama, pronuncia al Quirinale un discorso che carica di coraggio e speranza un’Italia in guerra di valori, lavoro ed equità. Ringrazia l’Italia per il privilegio di averla potuta rappresentare vestendo i colori della nazionale, e ringrazia gli italiani per aver rappresentato la nazionale femminile nei loro discorsi al lavoro e al bar, tifando davanti alla tv, parlando di calcio femminile a cena. Donne che hanno dimostrato quanto la passione e il merito siano valori fondanti e raggiungibili. Coraggio e speranza. Etica e meritocrazia.

Sara Gama ha concluso il discorso ricordando il numero stampato in questi mondiali sulla sua maglia: tre. Tre – ha detto Sara Gama – un tre di cui vado molto fiera. Tre, che richiama nella mia mente uno degli articoli più belli della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

 

Cent’anni dopo la discesa in campo delle Munitionettes, la bomber Megan Rapinoe, Capitana degli USA che vincono i mondiali femminili di calcio 2019, ha ostentato una bocca serrata ogni volta che l’inno americano ha preceduto le partite. Ribellione muta che ha procurato assordante rumore intorno alle politiche sui migranti e sull’integrazione razziale di Donald Trump. Il momento di cantare sarà quello in cui l’America presterà attenzione a chi viene discriminato per le sue scelte sessuali e quando sarà assicurata la pay equality, ha detto Megan. Ed ecco che scoppia il #FuckingWhiteHouse, chi sta dalla parte del cancelletto della Rapinoe, chi da quella di Trump. Megan Rapinoe, quando ha tenuto chiusa la bocca, aveva nitida in testa l’immagine della star del football Colin Kaepernick, che nel 2016 si inginocchia sulle prime note dell’inno nazionale, un lutto portato in memoria delle vittime delle discriminazioni afroamericane; Megan aveva in testa l’immagine dei velocisti Tommie Smith (che stabilisce il record del mondo nei 200 metri) e John Carlos che nel 1968 a Città del Messico, con le medaglie d’oro e di bronzo appese al collo, alle prime note di The Star-Spangled Banner alzano il pugno avvolto in un guanto nero, rimanendo muti. Pagheranno un conto economico e sociale Smith, Carlos e Keapernich per le loro disobbedienze civili, perché c’è sempre un prezzo da pagare nel fare le cose che si ritengono giuste.

Ma è lo sport a essere pericoloso, dove c’è sport le persone sudano e chiedono molto e se stesse. Lo sport non è per persone che si accontentano, ma per quelle che rivendicano ogni diritto conquistato sul campo.

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.