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columnist
In curva, il biglietto per la partita di giovedì costa 20 euro.
Ok, si può fare. Cerco il posto sulla piattaforma e noto, con somma soddisfazione, che sono già quasi tutti andati. Meglio sbrigarsi, affinché la troppa soddisfazione non si tramuti nella delusione di restare a casa.
Dalla Russia con furore arriveranno in pochi, il fattore campo è nostro. Se vai allo stadio giochi anche tu, se non corri è meglio guardare la partita da casa, è più comodo ed economico.
Ok, clicco su “Acquista” e la partita comincia. Sì, nel momento esatto in cui compro il biglietto la partita può dirsi ufficialmente cominciata, sono autorizzata a pensarci, organizzare il viaggio, dove mangiare, la birra davanti ai tornelli, vicino a chi sedermi. Un lunghissimo sabato del villaggio, che carica l’attesa dell’attimo di festa, quello dell’azione, del forse gol. Fugace, ma non effimero.
Mentre stampo il biglietto penso agli articoli che ho letto recentemente a favore del calcio da bere come aperitivo, abbigliamento da ufficio, cena gourmet tra il primo e il secondo tempo al bar-ristorante del settore vip. Risatine accennate, trucco mai sbavato. In caso di gol, un gesto imperioso e veloce, poi di nuovo un occhio al display del cellulare, per non perdere questo velocissimo mondo che non si ferma ad aspettare nessuno, neanche nei 90 minuti di una partita.
No no, grazie, quei 20 euro non voglio spenderli per uno spettacolo di calcio-teatro, così come definisce il calcio moderno il raffinato editorialista della rivista Undici. Il teatro mi piace e mi emoziona, ma quando vado a vedere l’Otello – pur essendo io un’insanabile ottimista – non mi aspetto che Iago, su mio empatico suggerimento, alla fine ce la faccia a non tradire l’amicizia del Moro, mentre quando vado al Grande Torino sì, col mio essere lì mi aspetto di influenzare il copione, il comportamento di Iago e di tutti gli altri.
Inutile spendere parole per spiegare che guardare la partita sul divano è diverso che abbracciare in curva il tuo amico di sempre dopo un’azione grandiosa e poi abbracciare puro lo sconosciuto dall’altro lato, per un motivo semplice e bastante: ha la maglia granata addosso.
Mi fa sorridere che gli anglosassoni prima condannano i tifosi del Tottenham per aver contravvenuto al regolamento, avendo seguito la partita in piedi e poi si inventino cori posticci sparati dagli altoparlanti e denunciati dagli avversari. Le voci per incitare dal vivo non ci sono più, manca l’energia nel salotto buono della regina. Una tristezza che neanche nelle sit-com americane: tre, due, uno, ridere grazie.
La passione non si imbriglia, è ribelle per natura.
E allora cos’è che è stata imbrigliata con biglietti da 40 sterline? La violenza? Forse sì, non lo so, è un fenomeno sociale talmente complesso che non mi cimento in ipotesi estemporanee. Sicuramente c’è sempre più spazio per un altro tipo di violenza allo stadio, quella economica.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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