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columnist
“Ma dov’è Superga?” Intorno, tante montagne.
Mio padre mi ci aveva portata l’anno prima a Superga, e io volevo tornarci, perché aveva reso quella giornata indimenticabile tra racconti, gelato e bandierina nuova. Aveva letto un elenco di nomi a voce alta, credevo fossero le parole di una preghiera.
“Allora papà, dov’è Superga?”
“Tu, sei Superga”
“Papà, quella con la punta, di Superga”.
Mio padre guardò in giro e poi indicò una collina non lontana da casa nostra, con una costruzione solitaria sulla cima: un mulino.
Storsi il naso, per nulla convinta.
Ci sono voluti anni, ma ora sì, mi sono convinta: Superga è un mulino a vento.
Quel mulino vicino a casa mia lo costruì negli anni sessanta un padre per suo figlio. Un figlio rimasto ragazzino per sempre, morto troppo giovane per realizzare il suo sogno di andare ad abitare in Olanda, in un mulino. Il padre non costruì una lapide ma un miraggio, capace di far vivere per sempre il figlio. Un mulino che è stato eretto in un posto panoramico, sì, ma non per essere visto da lontano, al contrario, sta lì perché possa guardare le Valli familiari che lo circondano, e sentirsi a casa. Un mulino che può sembrare inutile, ma che sa essere inutile in un modo meraviglioso: nel movimento delle braccia raccoglie ariadal cielo, restituendo profondi respiri.
Il mulino non è inserito in un circuito turistico, eppure le volte che ci sono andata ho sempre trovato dei visitatori. Curiosi che immaginano in quella costruzione solitaria un nido per innamorati o il passaggio dell’Olandese Volante in Piemonte.
E invece no, è un ragazzino che guarda verso casa, con il suo sogno nel sorriso. Un padre che ha trasformato il dolore in mattoni e pale.
Dopo la morte del padre il mulino è caduto in rovina, ma poi qualcuno ha deciso che quel ricordo non doveva scrostarsi, ha comprato la costruzione e l’ha restaurata.
I sogni hanno bisogno di un po’ di manutenzione emotiva, rimangono brillanti se vengono raccontati, e non importa se le parole sono già sentite, le favole piacciono proprio perché si ripetono sempre uguali e alla fine i protagonisti continuano a vivere. Parola di bambino.
Il quattro maggio è il giorno per riscoprire il Grande Torino in una Superga costruita dentro, tra gli organi interni, probabilmente nel cuore. Una Superga ariosa, innamorata della vita perché profonda conoscitrice della morte.
Ho visto Superga entrando allo stadio domenica sera, l’ho vista nell’assenza di spazi vuoti. E poi l’ho vista nel fiatone dei giocatori granata che non hanno mai smesso di sventolare verso la porta avversaria, nella severità paterna di De Silvestri e Belotti nei confronti delle intemperanze diParigini, nella furia di Sirigu. Ho visto Superga nelle migliaia di luci accese nell’intervallo, a tremolare sulle note di “Quel giorno di pioggia”, mentre si sentiva forte il silenzio rispettoso dei tifosi milanisti, a ricordare che Superga è Patrimonio di tutti. E poi Superga l’ho vista negli occhi di Rincon che a fine partita è corso verso i distinti indicando qualcosa col dito, ha saltato i cartelloni e si è fatto aprire la porta di delimitazione degli spalti. Si è tolto la maglia e per un momento ho visto sventolare la bandiera del suo, nostro, martoriato Venezuela.
Ho visto Superga in un mulino.
Noi soffiamo per fare alzare il vento, e il mulino non potrà che produrre forza, macinando storia, sogni e volontà.
Anche venerdì sera.
Vinca, chi si giocherà più vita in campo.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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