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Loquor

The Fabelmans: il ritorno di Claudio Ranieri

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Nuovo appuntamento con la rubrica Loquor di Carmelo Pennisi: "Non è questione di giusto o sbagliato: gli americani sono così".

“Ci sono sogni che non dimenticherai mai”.

The Fabelmans

“Mi piace fare l’allenatore perché mi da la possibilità di far felice la gente”, dichiarò una volta Claudio Ranieri ad una stupita reporter inglese, che si aspettava forse una risposta più roboante e infinitamente più pop. Bisognerebbe parlare di felicità quando si parla di calcio, considerato come il calcio sia, alla stessa stregua della felicità, un’allegoria che nasconde un concetto e una serie di esplosioni di sentimenti positivi anche quando dovresti essere solo triste. “La felicità comincia quando si è contatto con altre persone” ci ricorda Zygmunt Bauman, e non c’è posto come lo stadio ad obbligarci al “contatto”, ad uscire dalla solitudine a cui oggi la tecnologia ha prima sedotto e poi rinchiuso il nostro “io”, ed è lì che è possibile avvengano straordinarie rivelazioni per le necessità della nostra esistenza. Il calcio va trattato con amorevolezza, e vorrei sfatare(mi perdonerà, so che lo farà, Giovanni Paolo II, se ora provo un tantino a confutarlo) chi ha detto come sia la cosa più importante tra le meno importanti, visto come sia un veicolo di felicità e persino di serenità, a meno che non vogliamo catalogare anche la felicità e la serenità tra le cose più importanti tra le meno importanti. E poi c’è la speranza e il sangue dell’identità a circolare nelle vicende pallonare, il mettere i piedi a terra la mattina al risveglio ed avere subito la certezza per cui lo si sta facendo. Il calcio non da risposte, ma concede tutta una serie di certezze, e poi ti fa felice senza tu abbia poi la necessità di saperlo. Ma se non lo sai tutto questo, se non sei nato e cresciuto in Europa, la questione o ti sembra un arcano inspiegabile o la liquidi semplicemente come un gioco. Faciloneria e dare troppo conto alla tabellina aritmetica di interessi: così i Friedkin hanno sbagliato.

Hanno cacciato in malo modo Daniele De Rossi (versando sangue di dna giallorosso sul terreno), e poi hanno continuato a sbagliare prendendo Ivan Juric, e non perché il tecnico croato non abbia dei talenti, ma ogni tanto bisogna un attimo a fermarsi a considerare cosa sia sul serio il calcio, invece di perdersi dietro alla fuffa cosparsa nel suo retrobottega da procuratori disinvolti e dal marketing determinato a portare il gioco più seguito e amato al mondo dentro le sue regole del “spendi a più non posso e stordisciti”. Ma per quale ragione c’è chi non capisce che la gente ama la Ferrari non come desiderio di volersene comprare una, ma perché è una Ferrari? Il “Cavallino Rampante” è cuore pulsante del Paese, non hai bisogno di venderlo o di farlo desiderare. Stiamo parlando d’Italia. Allora prendi Juric convinto di dover vendere qualcosa ai tifosi giallorossi, a cui hai appena umiliato un pezzo della loro storia. Un procuratore devi averti persuaso, raggirandoti, quanto Ivan avesse la “fame” e l’esperienza giusta per dare ragione alla tua teoria di aver cacciato De Rossi perché non all’altezza del compito. Ivan a Roma poteva diventare “Il Terribile” e farti diventare un “Cesare” più previdente di “Commodo” che emargina “Massimo Decimo Meridio” per pura invidia. I Friedkin avevano bisogno di una vittoria schiacciante per portare dalla parte delle loro decisioni la tifoseria giallorossa, perché a Roma non si può sputare su una sua icona e pensare sul serio di passarla liscia. Roma non vive ogni giorno di calcio, vive ogni secondo di calcio, e l’Olimpico quasi sempre tutto esaurito ne è, ve lo assicuro, solo una pallida prova di come la Capitale viva le vicende di questo gioco. Ma bisognerebbe essere nati in Italia, o al massimo in Europa, per capirlo. Persino l’algido Giulio Andreotti, uno impossibile da percepire nemmeno guardandolo negli occhi perennemente immobili e glaciali, si accendeva per la Roma. E nessuna vicenda della squadra Capitolina poteva avvenire senza il suo consenso.

Non si può far guerra alla storia senza conoscere la storia, anche perché non sei negli Stati Uniti che del suo essere senza storia ne ha fatto vessillo esistenziale. “Panta Rei”, tutto scorre e tutto si deve essere disponibili a cambiare, a modernizzare, a corrompere, non per un futuro migliore, ma per un futuro da vendere con più facilità e con più profitto. Non è questione di giusto o sbagliato: gli americani sono così. Prima ti propagandano in maniera martellante un concetto di bene e te lo fanno accettare come obiettivo, poi stravolgono tutti i punti cardinali della tua vita come un caterpillar per far trionfare quel concetto. Tanto tu da tempo ti sei già arreso. Ma giunge un momento in cui la storia ti punisce, mettendoti ancora una volta nella condizione di prendere atto che la “Torre di Babele” non si può fare, non ti sarà concesso toccare il cielo con l’arroganza. Ecco quindi i Friedkin arrendersi e fare l’unica scelta possibile, afferrando nell’ultimo attimo utile, prima dell’apocalisse sportiva, che la Roma è dei suoi tifosi, ed è patrimonio di una città intera. Non si può scherzare con uno stadio regolarmente riempito da sessanta/settantamila persone, non si può rischiare di perderle. No, non si può rischiare di mettersi contro l’anima della città.

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Allora si ritorna a miti consigli, si ripone il futurismo dinamico americano a “stelle e strisce” nel cassetto, e da quello stesso cassetto si ritira fuori la storia, mortificata fino ad un attimo prima. La conseguenza è andare da Claudio Ranieri per un travaso di sangue giallorosso, e sperare lui sia disponibile ad una nuova trasfusione. Non c’è altro modo per riannodare i fili. C’è chi se ne frega di questi fili, vedi Claudio Lotito o Urbano Cairo, e c’è chi invece sa quanto questi fili siano importanti se si vuole crescere in risultati e utili. E non c’è americano disponibile a combattere una guerra di posizione, per loro o si va all’attacco o si chiude baracca. Per la soddisfazione delle ambizioni ciò è un indiscutibile pregio. Sir Claudio si stava godendo una tranquilla pensione(“potrei rimettermi in gioco solo per una Nazionale”), aveva deciso di chiudere la sua carriera in bellezza portando dalla “B” alla “A” il Cagliari, per poi mantenerlo nella massima serie, ed espletare un debito di gratitudine verso i sardi. Le persone perbene sono così. Ritornare alla guida tecnica della Roma, nel momento difficile in corso, vuol dire rischiare la sua chiusura in bellezza in terra sarda, mettere sul piatto di poter deludere proprio nel posto in cui non vorrebbe mai deludere.

Vale davvero la pena a 73 anni, e dopo una luminosa carriera, rischiare così tanto? “Se la Roma chiama io non posso dire di no. E’ per la maglia, capisce”? Disse una volta in conferenza stampa rispondendo ad un giornalista che chiedeva lumi sul perché del suo ritorno alla Roma. E su queste parole si ripresenta la felicità del calcio antico, di uno sport reso così speciale da un Continente controverso e inquieto, ma capace di interrogarsi sul come stare al mondo. Siamo un bel posto dove vivere, e ci siamo conquistati questo a prezzo di grandi sacrifici e sofferenze. Vanno bene le autocritiche sugli errori che abbiamo fatto(la memoria non va mai trascurata), ma la nostra cultura ha stabilito come lo sport fosse per le persone, e non le persone per lo sport. Gli americani ciò non lo capiranno mai. Un conoscente di Leicester, tempo fa, a proposito dell’epica affermazione del club calcistico in “Premier League”, ha tenuto a dirmi come la vittoria ottenuta dalle “Foxes” alla guida di Ranieri abbiano sospeso la città in un lungo istante di felicità collettiva. “Le persone più anziane dicono che era dai tempi della II Guerra Mondiale che non si viveva un momento di felicità insieme. La sensazione di non essere da soli è bellissima. Siamo tornati ad essere una comunità. Claudio Ranieri non verrà mai dimenticato per questo”. Mi stava dicendo quelle parole perché ero italiano, voleva ringraziare il mio Paese per avergli concesso Ranieri. Mi sono sentito orgoglioso, fiero, e ho provato felicità. Non riuscirei mai a raccontare compiutamente quanto in quel momento mi sia sentito bene, quanto mi abbia aiutato quel sentirmi bene. Il calcio è una calamita di felicità, di buone intenzioni, per questo non lo si deve maltrattare.

Chi non lo capisce deve farsi da parte, affinché non sia colpevole di ridurre una benedizione ad una maledizione. Negli ultimi tempi Ranieri aveva detto di sentire un po’ stretti i panni da pensionato che si era voluto attribuire, e l’intenzione di prefigurare un qualche ritorno c’era. In realtà non era il calcio a mancare a lui. era lui a mancare al calcio. All’aeroporto di Fiumicino c’erano tanti tifosi ad attenderlo, e tra loro il tennista Flavio Cobolli(numero 32 del mondo), che lo ha scortato fino all’automobile. Lo avrebbe fatto anche Lorenzo Sonego per il suo Toro e per il ritorno di Paolo Pulici. Nessuno più di un tennista conosce il valore del tornare a casa. Per amore del gioco e della maglia, questo è l’epitaffio giusto per uno dei più straordinari uomini di sport che l’Italia abbia mai avuto. E mentre lo scrivo, provo una felicità infinita.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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