“Noi siamo un mosaico originale
columnist
Tifare Toro o Juve
di elementi banali”.
Jean Rostandt
Spesso mi sono chiesto cosa sia la rivalità tra le varie tifoserie calcistiche, in un gioco, quello del calcio, che dall'inizio dei suoi tempi è sempre stato molto abile nel generare sentimenti forti e nuovi territori identitari innervati in scontri culturali ed esistenziali persistenti nel tempo. E' bene chiarire che non tutte le storie di calcio sono uguali, e non tutte rivestono la stessa importanza. Anche se è altresì chiaro come le nostre storie ci sembrino più importanti di tutte le altre. Nemmeno i tifosi sono tutti uguali, anche se partono dagli stessi presupposti emotivi, perché prima di tenere per una squadra sono ovviamente delle persone, con le loro storie personali e familiari. Ma hanno(abbiamo) tutti un tratto in comune: la squadra per cui tengono sovente è “l'emoticon” del loro stato d'animo.
E' quasi banale e scontato affermare come un tifoso della Juventus non sia uguale a quello del Torino, ma credo non sempre ci si renda pienamente conto in cosa consista veramente questa diversità nelle sue pieghe più profonde. Guardandola da fuori(come è noto sono tifoso del Manchester United) e un po' superficialmente sembrerebbe l'eterna sfida tra “poveri” contro “ricchi”, ed è incontestabilmente in parte vero se anche solo guardassimo le differenze di fatturato e valore della “rosa” che persiste tra le due squadre. Un tifoso del Toro,a guardare le manovre di mercato in questo primo scorcio di agosto, potrebbe addirittura farsi prendere dalla depressione e dallo sconforto fermandosi a notificare le già notevoli operazioni portate in porto dalla società bianconera e paragonandole a quelle granata. Ma la sfida, a mio parere, non è questa. Anche perché credo, da quel poco che ho capito, che un tifoso del Toro non si sognerebbe mai di mettersi a paragone con un tifoso juventino, perché ciò vorrebbe dire accettarne il mondo. E ci si troverebbe di fronte ad un'eresia del tifo granata. Qualche tifoso del Toro mi ha raccontato che, sorprendendosi in un ragionamento profondo ed esistenziale sul suo essere un epigono della squadra che fu di Valentino Mazzola, ha capito come la questione non risieda sul povero e ricco, ma sul potere. Un potere che la famiglia Agnelli, dominus da sempre della società bianconera, ha sempre cercato di esercitare sotto ogni forma, quindi anche nel calcio, in un Paese, l'Italia, che ritiene essere il suo regno.
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Non a caso i media hanno sempre definito gli Agnelli la vera famiglia reale d'Italia. Suppongo, e chiedo venia ai tifosi del Toro di questo mio ragionamento procedente a tentoni e inevitabilmente ipotetico, come i tifosi granata ritengano questa pretesa regale della famiglia “Fiat” una sorta di usurpazione di un potere, prima appartenuto ai Savoia e dopo alla Repubblica, che pone il popolo sovrano come cardine principale della sua Costituzione. Ed è in questa usurpazione di potere, evidente e manifesta perché mai negata dagli Agnelli, che è cresciuta, a me parrebbe, l'identità esistenziale granata. Certo, è noto a tutto il mondo come i tifosi italiani non bianconeri si sentano tutti anti juventini, ma nessuno come i tifosi del Toro sente fin dentro il più profondo recesso del suo istinto “l'ingiustizia” rappresentata dalla Juventus. Perché il potere che da sensazione di soverchia è sempre un'ingiustizia. E allora il problema non è essere “poveri”, perché la povertà può essere anche un rigurgito positivo di orgoglio del farcela comunque ad esistere, ma piuttosto di non accettare il potere per il potere. Ed è in questo tracciato esistenziale che è nata una delle più interessanti, sociologicamente e culturalmente, diversità tra tifosi presenti in Italia. Porta conseguenze ciò nella vita pratica di tutti i giorni? Porta conseguenze nelle nostre azioni individuali? Ovviamente sì, ed ad un'osservazione attenta sono certo che chiunque potrebbe cogliere in molti banali gesti quotidiani la differenza tra uno juventino e un torinista.
Questa mia analisi non vuole essere un incitamento a juventini e torinisti a detestarsi o addirittura ad odiarsi da qui ai secoli a venire, anche perché qualcuno ha scritto che “la saggezza è saper stare con la differenza senza voler eliminare la differenza”, ma piuttosto come due squadre di calcio hanno probabilmente influenzato in modo importante molti modi di approcci comportamentali dei tifosi delle due squadre. Personalmente adoro i tifosi del Toro perché mi ricordano continuamente la “resilienza”, che è una delle più belle virtù che il Creatore ha messo a disposizione degli uomini. Ma non sempre è una squadra a forgiare parte dell'animo umano(ah, quante variabili e possibilità ci da l'esistere), a volte può essere il territorio a forgiare la squadra nei suoi valori etici ed esistenziali. Jimmy Jones giocava nel Belfast Celtic, e questo a molti non dirà quasi nulla. Ma se ci si trova nel cuore dell'Irlanda del Nord e nel pieno dei “The Troubles”(il conflitto a “bassa intensità” tra cattolici e protestanti che per decenni ha afflitto il “dominion” inglese nella terra che fu di San Patrizio), allora la questione assume una certa rilevanza per la nostra attenzione. Jimmy Jones era un “lealista”(protestante) che guidò per un certo periodo l'attacco del Belfast Celtic, la squadra di calcio cattolica più importante di Belfast fino al 1949, data della sua cessazione da ogni attività agonistica. Ora provate ad immaginare il primo protestante a giocare per una squadra cattolica nella storia calcistica dell'Irlanda del Nord. Provate ad essere a “Falls Road”, il quartiere che fu di Bobby Sands, autentica icona della resistenza dell'Irish Republican Army(IRA), dove il Belfast Celtic nasce per onorare i famosi colleghi scozzesi di Glasgow.
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Provate a fare questo gioco, e forse riuscirete per un istante a comprendere cosa devono aver provato i “lealisti” a veder scendere in campo per una squadra cattolica uno dei migliori talenti di sempre del calcio nord irlandese. Stiamo parlando di una terra dove il Derry Football, altra squadra cattolica, è stato costretto nel 1985, con una speciale intercessione della Fifa, ad “emigrare” nella Lega Calcistica della Repubblica d'Irlanda, a causa di continui scontri tra i suoi tifosi cattolici e i tifosi protestanti. Neanche l'accordo di pace del “Venerdì Santo” del 10 aprile del 1998 è riuscito a spegnere del tutto le tensioni negli stadi, che continua ad essere uno dei luoghi in cui si manifesta lo scontro tra identitari cattolici e unionisti protestanti. La storia tra Jimmy Jones e il Belfast Celtic finì traumaticamente nel “Boxing Day”(la partita che si gioca tradizionalmente nel giorno di Santo Stefano) del 1948, evento che vide scontrarsi i bianco verdi del Celtic contro la celebre squadra protestante del Linfield. A pochi minuti dalla fine dell'incontro, e dopo l'insperato pareggio della propria squadra, i tifosi del Linfield invasero il campo e si avventarono sui giocatori avversari.
Ad avere la peggio fu il giovane Jimmy Jones a cui i tifosi del Linfield spezzarono una gamba(che recuperò per l'attività agonistica dopo due anni di delicati interventi chirurgici). E probabilmente gli sarebbe finita peggio se il cattolico Sean McCann, portiere della squadra del Ballymena United, non si fosse precipitato in suo aiutò dal suo posto in tribuna, cominciando a rifilare calci e gomitate alla folla impazzita che si stava accanendo sul corpo ormai svenuto di Jimmy Jones. Sean, vista l'impossibilità di poter difendere con le sue mani il giocatore del Celtic, decise che gli rimaneva una sola possibilità per salvarlo dalla furia dei tifosi del Linfield, che sembravano volessero seriamente ucciderlo: con il suo corpo lungo da portiere, si buttò sopra il corpo di Jimmy Jones, prendendosi tutte le botte al posto suo e probabilmente salvandogli la vita.
Anni dopo, ormai anziano, Jimmy Jones in un intervista regalò un lampo di quell'ironia di cui sono piene quelle terre: “la cosa paradossale è che io ero protestante e le persone che stavano cercando di uccidermi erano protestanti, mentre Sean McCann era cattolico”. Le squadre di calcio come crocevia delle grandi questioni storiche in cui sono protagoniste le persone con le loro identità, questo insegna questo pezzo di storia di sport nordirlandese. Il bisogno di essere rivali, di essere parte di qualcosa, di interpretare le proprie esperienze; questo ci rimanda, da più di cento anni, il magnifico gioco del calcio. A ricordarci continuamente una verità fondamentale, come ebbe a sottolineare il mistico indiano Swami Vivekananda: “se fossimo tutti identici, che monotonia! Stesso fisico, stessi pensieri. Che cosa ci rimarrebbe da fare, se non sederci e morire nella disperazione. Non possiamo vivere come una fila di fromiche, la diversità fa parte della vita umana”. Viva il calcio. Viva la diversità. E buon inizio agonistico a tutti. Con il cuore.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
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