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Torino FC fans choreography during the Italian Serie.A, 2024/25 season, football match between Torino FC and SSC Napoli on 01 December 2024 at Stadio Olimpico Grande Torino, Turin Italy. Photo Nderim Kaceli
“Il giorno dello scudetto dov’era?”
“E chi se lo ricorda, è passato tanto tempo. Avevo diciannove anni.”
(Intervista di Massimo Gramellini a Urbano Cairo, 19 agosto 2005)
Ieri il Toro ha compiuto 118 anni. È stato un compleanno triste e non tanto (o non solo) per le pessime figure della squadra in campo, un gruppo di persone scarse o ormai con nulla da dare che portano la maglia granata addosso mentre pascolano per il campo. È stato triste per i giorni di esternazioni sopra le righe e con contraddittorio nullo del presidente del Torino mentre tutto il mondo granata prega per un cambio di proprietà e si ritrova davanti i soliti artifici retorici, le lezioni di vita evitabili, le inesattezze che finiscono per bersi tutti quelli che pensano al Toro tre minuti ogni tanto quando sono costretti a infilarlo nelle scalette dei loro palinsesti. Il tutto mentre il giornale con le pagine rosa del patron di Masio, dopo aver dedicato un’agiografia per il suo record di longevità alla presidenza solo il giorno prima, non ha scritto mezza riga sulla ricorrenza del 3 dicembre.
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Questo pezzo non sarà una lettera aperta al presidente. Non ho nessuna intenzione di raccontargli cosa non va sulla sua narrativa, su cosa vogliamo davvero, su perché questi diciannove anni siano stati un tormento continuo con pochissime eccezioni. Sarebbe tempo perso, la gente tendenzialmente non cambia, figuriamoci se lo fa dopo diciannove anni tutti uguali.
La mia intenzione è andar contro a una narrativa che negli ultimi giorni è stata presentata nel modo più sfacciato, con toni che hanno lambito la presa per i fondelli fra le risate del pubblico (come letto in un tweet sembrava uno spettacolo di stand-up comedy), con argomentazioni che sono quelle che fanno chiedere, a chi non vive il Toro, “ma cosa vogliono questi tifosi granata?”.
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Tale narrativa è inaccettabile per chi tifa e ama i colori granata. Perché perdere tempo, sentimento, soldi (sì, soldi, perché le spese per biglietti, abbonamenti, televisione, spostamenti sono uscite dalle nostre tasche e non siamo certo milionari) dietro a una squadra e sentirsi sfottuti di continuo è una cosa che deve segnare una linea rossa dopo la quale bisogna dire le cose come stanno. Senza i tifosi il circo finisce e prima o poi anche le scuole calcio da invitare per riempire ii vuoti allo stadio terminano.
La frase più allucinante che ho letto in questi giorni è relativa al non trovarsi più ai tempi del Grande Torino. Come se la storia del Toro arrivasse fino a Superga, poi ci fosse un buco temporale e di colpo ci si ritrovasse nel 2005 con Cairo che arriva al Toro dopo che i Lodisti l’hanno salvato (sì, l’hanno salvato i Lodisti e alcuni giocatori protagonisti del primo campionato con la nuova dirigenza erano stati acquistati da loro come Oscar Brevi e Ardito).
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Quello che succede dopo Superga, invece, crea il Toro come lo abbiamo conosciuto fino a metà anni 90. Il pubblico che accompagna la squadra nei tragici anni ’50 si compatta in modo tale da creare il nucleo della prima tifoseria organizzata. Gli anni ’60 sono stati un crescendo continuo, un intenso ritrovarsi con un’identità sempre più forte e i ragazzi del Fila serbatoio inesauribile per la prima squadra, quello sì un settore giovanile d’avanguardia per cura del giocatore e della persona con professionisti commoventi a cui in molti oggi non sono degni di sciogliere i legacci dei loro sandali. E poi ci sono gli anni Settanta.
Il Toro vince lo scudetto, ne avrebbe meritati altri due (uno tolto da una rapina a mano armata, l’altro da un allineamento dei pianeti difficilmente ripetibile). Le differenze di fatturato c’erano anche allora. Gli incassi erano la voce più importante alla categoria entrate e Beppe Bonetto, il dirigente cardine del Toro di Pianelli, l’architetto di una squadra stupenda, la domenica mattina come prima cosa guardava che tempo facesse per capire se il botteghino avrebbe sorriso o meno. Quel Toro ha vinto (non dimentichiamo due Coppe Italia) e avrebbe potuto vincere ancora di più (oltre a succitati scudetti, sfumati le tre finali consecutive di Coppa Italia perse). Dove non arrivano i fatturati dovrebbero esserci la competenza, le idee e i valori, perché senza queste cose non costringi i tuoi dirimpettai a farsela addosso in ogni derby. Derby che negli ultimi diciannove anni hanno giocato con la sigaretta in bocca avendone perso uno solo. (Postilla: che fatturato ha l’Alessandria? Perché i grigi hanno conquistato una semifinale di Coppa Italia, il Toro con Cairo mai. Il giorno della partita più importante degli ultimi anni - il quarto di finale contro la Fiorentina - sembravano tutti più presi dalla cessione di Lukic che dalla partita).
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Anche il Toro ottanta, pur senza trofei, è qualcosa di cui andare fieri, irriducibile, spesso bello. Junior e Dossena, Schachner e Kieft, Cravero e Francini. La retrocessione del 1989 come fulmine a ciel sereno, bestemmia sportiva, causa di insonnia in tanti giocatori a distanza di tempo: questo per dire che cosa eravamo. Poi ritornare subito su, la botta di vita di Borsano e Mondonico, la luna toccata la sera di Toro-Real, la Coppa Italia più sudata di sempre. In tutti quegli anni il Toro ha vinto, perso, ha goduto e ha pianto, ma mai e poi mai ha vivacchiato, non ha fatto sognare, non ha offerto prospettive che ci faceva infuriare non raggiungere, ma che comunque c’erano. Ora sì. Anche Tori più scalcagnati come quelli post 1994 hanno avuto qualcosa di forte dentro (gli occhi di Asta e Ferrante, i gol di Rizzitelli, la classe di Pinga, il granatismo di Camolese). Anche qualche Torino di Cairo in alcuni suoi elementi come Gazzi, Vives, Maxi Lopez, Glik, Darmian è stato baciata da questa magia, pensate quanto possa essere forte. Ma sono momenti, ultimi singulti di uno spirito in fin di vita, ma che vuole ancora aggrapparsi all’esistenza anche se il polso è sempre più deboli. il Toro in questo momento è il niente, un elettroencefalogramma piatto che se si verificano alcune situazioni astrali particolari può sperare nell’Europa ovviamente senza centrarla (salvo ripescaggi) o se il vento tira dalla parte sbagliata può rischiare la B e deve richiamare il Nicola di turno.
Eppure ci sentiamo raccontare che il tifoso del Toro dovrebbe essere contento di essere in serie A, perché quando è arrivato Cairo gli abbiamo detto così. Ma chi? Forse gli stessi dei sondaggi di questi giorni? Ma se anche fosse vero sono passati diciannove anni, possibile che non si evolva mai? Abbiamo perso l’occasione di fare il salto di qualità nei periodi della banter era delle serie A dove dietro Juventus, Roma e Napoli c’era il vuoto e le milanesi erano in mezzo a un strada. Negli anni, oltre all’Atalanta, ci sono passati davanti la Fiorentina e il Bologna per non parlare del già citato Napoli e della Lazio. Noi siamo sempre lì, fermi, inutili, tristi. E pensare che durante l’intervista citata in apertura Cairo parlava di modello Udinese, ma non quella di adesso (che comunque ha uno stadio di proprietà), bensì quella che andava in Europa in ogni campionato. Chissà cos’è successo nel frattempo.
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Bisogna studiare la storia, saperla e capirla per comprendere cosa possano volere i tifosi del Toro. Bisogna studiare la storia, saperla e capirla per non cadere nella trappola della nostalgia nel modo retorico e sbagliato. Bisogna studiare la storia, saperla e capirla per allenare la memoria e ribattere ai colpi delle informazioni riportate erroneamente. Ma come facciamo a pretendere la conoscenza della storia da un presidente che non ricorda nemmeno dove fosse il giorno più importante del Toro del dopoguerra, quando molti di noi si sanno dove fossero anche in un Salernitana-Torino 0-0 2004/2005? (Per la cronaca: a casa del mio amico Stefano, anticipo del venerdì sera, se non erro avevano anche annullato un gol a Raffaele Longo). Infatti non possiamo. Ma non possiamo più accettare lezioni da chi non ha capito nulla di noi e prova anche a darci la colpa della situazione, ricordandoci che dovremmo comunque stare vicini alla squadra e tifare, perché altrimenti l’ambiente è negativo come se le partite dello scorso anno con Salernitana e Frosinone e contro il Lecce questo’anno non si fossero risolte in squallidi zero a zero nonostante un pubblico carico ed entusiasta. Basta, per favore. Basta. Pietà.
Scusate se ho interrotto il doppio episodio sulla promozione 98/99, ma c’erano troppe cose sullo stomaco. Ricominciamo i racconti mercoledì. Fate i buoni.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (0 meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l'eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e...Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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