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Toro e Como: memorie di una trasferta lariana
Quel ramo del lago di Como...
Il più celebre incipit della letteratura italiana, la prima riga di quei Promessi Sposi che generazioni di studenti si sono sentiti declamare dalle cattedre delle aule di ogni ordine e grado, balza alla memoria in questi giorni che precedeno la partita contro la squadra lariana, che torna a farci visita a Torino dopo due decenni. Non temete, non mi dilungherò sul capolavoro manzoniano. Mi limito a servirmi della famosa frase per introdurre un ricordo granata di trentacinque anni fa: la drammatica trasferta del Toro, da poco rilevato da Borsano e allenato da Vatta, dell'11 giugno 1989. La squadra, partita con grandi ambizioni completamente disilluse, si trovava invischiata nelle acque torbide della più bassa classifica e la sentenza che avrebbe precipitato i granata in serie B per la seconda volta nella storia incombeva come una mannaia inesorabile.
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A tre domeniche dalla fine solo un filotto di tre vittorie avrebbe potuto invertire la rotta e mantenerci nell'Olimpo. Il primo dei match fondamentali era da disputarsi sul lago di Como contro una squadra ancor più disperata di noi e tutti ci aggrappavamo a quel sottile filo di speranza che ci teneva in bilico sul baratro. La partita, secondo la nostra più classica tradizione, partì malissimo: gli Azzurri locali (all'epoca erano decisamente azzurri, i Comaschi, niente a che vedere con il blu attuale) passarono al primo affondo; la situazione da drammatica si fece disperata e solo la Maratona itinerante che riempiva il Sinigaglia sembrò crederci ancora.
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Come nelle fiabe, l'anima carioca del Toro si rianimò e prese in mano le redini del gioco: prima ci riportò in parità Müller, con un'azione travolgente in cui l'attaccante, dopo aver saltato come birilli due avversari, si permise di dribblare perfino il portiere; poi ci pensò Edu Marangon, con una punizione magistrale, di quelle da recuperare sul web e vedere e rivedere, per ricordarsi che è possibile scagliare tiri che, dalla grande distanza, sfidano le leggi della fisica e finiscono per centrare l'incrocio dei pali. Alla fine del primo tempo Benedetti chiuse il discorso che nemmeno il solito rigore, fischiatoci contro nel finale, riuscì a riaprire. Finì 3 a 2 per noi e si scatenò l'illusoria festa.La salvezza era lontana, con il senno di poi troppo lontana, ma all'epoca non era concepibile immaginare la retrocessione del Toro. L'unica presenza in serie B, nel remoto campionato 1959/60, non riusciva a macchiare un palmarès impeccabile: sembrava che un'onta del genere non potesse toccarci più.
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Quando la domenica successiva giunse la seconda vittoria consecutiva, questa volta contro la fortissima Inter già campione d'Italia con un vantaggio siderale sulla seconda, ci dicemmo che si poteva fare, anzi che si doveva fare e che ce l'avremmo fatta, perché il Toro non poteva sprofondare. Sprofondammo, invece, sconfitti dal Lecce nell'ultimo, decisivo incontro. Ma fu un incidente di percorso. C'era un entusiasmo contagioso, la certezza che l'annata in Cadetteria sarebbe stata un episodio, una lunga esibizione su campi non abituati alla fortuna di ospitarci. Ci aspettavano anni di soddisfazioni. Lo sentivamo e sapevamo che sarebbe stato sufficiente pazientare. Entusiasmi ardenti, figli di decenni di gloria, che oggi covano sotto la cenere, come tizzoni in attesa di un soffio rivitalizzatore.
Autore di gialli, con "Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri" ha vinto l'edizione 2020 di GialloFestival. Marco P.L. Bernardi condivide con il protagonista dei suoi romanzi l'antica passione per il Toro e l'amore per la letteratura e la canzone d'autore. Nel marzo del 2023 è uscito il suo nuovo noir a forti tinte granata "Giallo profumo di limoni. L'avvocato Alfieri in un nuovo caso tra Torino e Sanremo" (Fratelli Frilli Editori)
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