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columnist
Alla parola derby - che di per sé mi smuove poco in pancia, un’inglesata pescata da uno sport che non è neanche il calcio, ma l’ippica - preferisco la definizione argentina dello scontro, il SuperClásico. Anche lì, giocano Los Millonarios, il River Plate, contro quelli che milionari non sono. Io, naturalmente, tengo per questi ultimi. Fuerza Boca!
Se a Buenos Aires le squadre del SuperClásico nascono tra i marinai e gli scaricatori del porto, a Torino prendono forma intorno ai rumori di ferraglia di una fabbrica dalle sterminate linee di produzione.
Se la rivalità del SuperClásico prende a spintoni Buenos Aires tra giocatori espulsi, altri che prima di allontanarsi passano sotto la curva avversaria e baciano la maglia, per poi essere scortati fuori dalla polizia, ecco, la rivalità del SuperClásico di Torino, non è da meno.
Se gli inglesi dell’Observer hanno decretato che al primo posto tra gli avvenimenti sportivi a cui devi assistere prima di morire c’è il SuperClásico, sicuramente esiste una postilla che dice: fatti un giro a Torino, prima.
Ci fu un derby di Pasqua, nel 1945. Le Alpi intorno a Torino erano cariche di partigiani, la città che a metterla gambe all’aria cadevano ancora giù crucchi. Quel derby di Pasqua non risentì del clima del dì di festa per la Liberazione ormai prossima. No, quello, fu un derby di guerra. Guerra civile. In campo Borel provoca, Mazzola prende fuoco. Rissa. E dagli spalti, nella confusione generale, degli spari. I giocatori che scappano negli spogliatoi minacciandosi a vicenda di tornare ad affrontarsi, presto.
A volte in campo scendono più di due squadre, gioca la storia.
Baricco - e Baricco è del Toro, chiaro, anche perché nell’ambiente intellettuale torinese fa figo ostentare la propria granatitudine. Anche perché, che storytelling ci puoi mai fare con la Juve, ma dai! - sostiene che la realtà sia costituita da fatti (che di per sé dicono poco) e da storie, che interpretano quei fatti.
Gli uomini sono questo: le storie che raccontano cosa gli è accaduto.
Dal luogo del derby di Pasqua non ci spostiamo – rimaniamo al Grande Torino, che prima era Olimpico, che prima era Comunale, che prima era Mussolini – ma facciamo un salto in avanti di settant’anni e atterriamo a piedi uniti sul medesimo seggiolino di un’altra domenica, quella del 26 aprile 2015. Che giornata. I fatti dicevano che il Toro, senza Immobile e Cerci, non andava più da nessuna parte, invece, la storia racconta di un Toro un pelo anonimo (anche se Darmian-Quagliarella-Peres-Martinez-Moretti- Lopez-Glik avrebbero qualcosa da ridire) che vince il derby. E il Toro da vent’anni, non vinceva il derby.
Ehi, vent’anni fanno una generazione! Ragazzi che sono nati, hanno frequentato le elementari, medie, superiori, sempre credendo sulla parola, senza vederla sconfiggere mai, la Juve.
Quel pomeriggio proprio non riuscivo ad andarmene dallo stadio, l’ultima foto al tabellone col risultato, beviamo qualcosa? Ancora due parole. Sapevo che il pullman aspettava, ma io avevo aspettato di più: venti anni e diciassette giorni. Il tempo di una vita.
Perché? Per via dei fatti.
E i fatti, hanno portato via al Toro per ben due volte la squadra. La prima volta nel 1949, quando i Grandi diventarono terra, cielo e nebbia di Superga; la seconda nel 2005, nel tribunale che ne ha decretato il fallimento.
Ma la storia racconta una realtà più complessa: nel 1949 il Toro ha acquisito di diritto l’immortalità e nel 2005 ha dato dimostrazione matematica alla parola dignità. Dignità: se sei il padrone della città, a questo mondo ti puoi comprare quasi tutto e tutti. Quasi, appunto. Puoi nominare un curatore fallimentare, ma neanche così la metti in liquidazione, la dignità del Toro. Il fatto è che ormai sul Piano Regolatore lo avevano scritto: il Delle Alpi lo regaliamo, e se per far ciò tocca passare sul cadavere del Toro, pazienza. E se per vincere tocca bonificare gli arbitri, pazienza. E se per essere i primi tocca fare finanza creativo-corruttibile, pazienza.
Quando la posta è vincere, c’è chi alla parola immortale, preferisce la parola immorale. Senza problemi.
Se la tua storia parla di uno che ci crede al punto da segnare tre gol in tre minuti quando a un quarto d’ora dalla fine sei sotto di due (derby 1983) e poi ci ricrede fino a segnarne altri 3 quando nel secondo tempo sei a -3 (derby 2001), allora non c’è dubbio, la tua, è una storia Toro.
Continuerai a crederci nonostante la puzza della fabbrica dove lavori, i tradimenti degli amici e le delusioni della vita. Non è poco.
Il Super Classico di Torino fischia e fa scendere in campo i liceali (quelli del classico Massimo D’Azeglio che scomodano il latino, per dire gioventù) contro quelli che fanno le scuole tecniche e li puoi trovare al bar (col granata nel bicchiere).
Scendono in campo gli aristocratici contro i lavoratori.
I padroni di cose, contro i padroni di se stessi.
I benpensanti contro i pratici.
Quelli che la loro verità la scrivono sul giornale di famiglia contro quelli che ne parlano per strada.
Quelli che di Torino non sono, contro la città.
Il SuperClásico cent’anni fa è nato così, poi negli anni i fatti sono cambiati, ma la storia che li racconta no, è rimasta quella.
E la squadra, più che per i fatti – quante partite ha vinto? Quanti attaccanti? Quali ingaggi? – la scegli per la storia che sa raccontare. E le parole devono essere uguali alle tue.
La squadra ti deve assomigliare, ti deve spiegare. Ora, sei pronto a farti rapire.
Oppure fingi… di farti rapire. E passi una vita a far finta di essere chi non sei. Agli juventini sembra gli piaccia così.
Pensare che ci siano state partite bianconerogranata, con le due formazioni unite a giocare contro un terzo avversario mi sembra quasi incredibile. L’ultima, in occasione dell’inaugurazione dello Stadio delle Alpi, negli anni novanta. Che il diavolo se lo porti, ‘sto campo con i soldi intorno!
Ma si vede che è così, il calcio ha il sopravvento sulle divisioni. Sa come vincere la guerra.
La storia che sa raccontare, prevale sui fatti che gli tocca vivere.
Nel Natale del 1914, nel bel mezzo di fatti che parlano di una guerra che ammazzerà nove milioni di uomini, c’è una storia che racconta di un cessate-il-fuoco di 24 ore. Il tempo di raccogliere i propri morti. I soldati inglesi e quelli tedeschi saltano fuori dalle trincee che li seppellivano da un anno e allungano le mani, le stringono, si fanno gli auguri. Da quelle fosse per i vivi rimbalza fuori chissà come un pallone, e un soldato fa una delle cose più naturali al mondo: tira. Ne nasce una partita di calcio contro gli ordini dei generali e contro la logica dei nemici, soldati che avevano bisogno di tornare a essere uomini, almeno per un giorno. Persone che hanno rischiato la corte marziale, per quella partita con il nemico.
E se non è stato un Super Classico quello…
Bene, il Super Classico di Torino è fissato per domenica.
Scrivi la nostra storia migliore, Toro!
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