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Toro: lavorare sull’affiatamento e sulla mentalità, per crescere davvero

Kamil Glik capitano del Torino Toro
Il Granata della Porta Accanto / Il derby perso alla stessa maniera dell'anno scorso ha riacceso il dibattito sul concetto più amato da Ventura e sostenuto da Cairo
Alessandro Costantino
Alessandro Costantino Columnist 

Si può perdere una partita (tra l'altro non una qualunque...) nella stessa maniera in cui hai perso la stessa partita l'anno precedente prendendo gol nello stesso minuto di recupero? Statisticamente parlando la risposta tendenzialmente sarebbe no, ma siccome il Toro è notoriamente abituato agli eventi straordinari, intesi cioè nell'accezione più stretta del termine di eventi fuori dall'ordinario, la risposta è incredibilmente sì. Se mi avessero catapultato su Marte per un annetto e, tornando, mi avessero raccontato dei due derby persi al 93', giuro che non ci avrei creduto, ma siccome sono rimasto qua sulla Terra e l'ho visto coi miei occhi, come tutti, mi sono fatto delle domande. La prima delle quali è nata da una dichiarazione di Ventura il quale ha sottolineato come anche questo faccia parte del processo di crescita.

Ecco, appunto, la crescita: non dovrebbe essere considerata crescita il fatto di non ripetere gli stessi errori? Ed è proprio qui, su questo scoglio, che si accende, e allo stesso tempo si arena, il dibattito. In linea di principio è vero che crescere significa accumulare esperienze per farne tesoro in modo da sapersi orientare in futuro se dovessero ricapitare eventi analoghi. Ma è applicabile al calcio un tale concetto? A mio modo di vedere no. Tutt’al più al calcio giovanile dove si sviluppa l'abitudine ad affrontare le più svariate situazioni agonistiche inerenti la partita in sé. E' credibile che dei professionisti possano ulteriormente "imparare", per di più a livello di gruppo, da certe situazioni che comunque hanno già affrontato più volte nelle loro esperienze passate? Difficile, molto difficile.

Insomma, a mio parere, la favoletta della crescita è di solito un elegante modo per mascherare la necessità di lavorare ancora molto sull’affiatamento e sulla mentalità di squadra. Di crescita del Toro si può parlare a ragion veduta, e su questo Ventura ha ragione, analizzando la situazione globale del club degli ultimi cinque anni: dalla B alla medio alta Serie A con una società economicamente sana e un ambiente nuovamente ricompattato e fiero. In questo ambito è lecito parlare di crescita, ma sul campo il discorso è leggermente diverso. Questo derby (ma anche la partita col Genoa) può insegnare qualcosa solo se gli stessi interpreti di queste due partite ne giocassero altre cento insieme ed affinassero un'intesa tale da poter fare davvero tesoro, come gruppo, di ciò che hanno affrontato. Purtroppo le rose moderne sono numerose, c'è tanto turnover e soprattutto ogni sei mesi col calciomercato ci sono elementi che vanno ed elementi che arrivano.

Cosa resta dunque? Bene che vada uno "zoccolo duro" di giocatori stabili e, nel nostro caso, Ventura. La domanda quindi è: ma se la costante è l'allenatore, non è perciò forse anche in parte dovuto ai suoi input l'atteggiamento della squadra che vediamo in campo? Se il Toro ogni stagione è più forte dell'anno precedente, al netto delle entrate e delle uscite, perché non si ha la sensazione che la squadra sia più sicura dei propri mezzi e sappia come gestire con il giusto piglio le partite difficili (ma anche quelle "facili", vedi Carpi)?

Ventura è stimato da tutto il mondo del calcio italiano come un ottimo allenatore, bravissimo a preparare le partite ed eccezionale ad insegnare calcio e a far crescere di valore i calciatori. Forse, e non vuole essere una critica ma una mera considerazione dettata anche dal suo curriculum, il mister genovese non è, però, ciò che si definisce un allenatore "vincente". Più per mentalità che per titoli. Il che ci porta a constatare un paradosso che si evidenzia dallo stato attuale delle cose: il Torino è prigioniero della crescita, nel senso che non ne può fare a meno visti i buoni risultati economici e tutto sommato sportivi dell'ultimo quinquennio, ma ne è ostaggio perché questo tipo di crescita ha innescato delle dinamiche che non gli garantiscono un altro tipo di crescita, quella che si immaginano e desiderano i tifosi, ovvero quella legata a vittorie e posizioni di classifica. Se si volesse pertanto uscire da questo paradosso la soluzione più logica sarebbe a fine campionato cambiare tecnico ed iniziare un nuovo progetto. Facendo però attenzione a non commettere un gravissimo errore: se si cambiasse Ventura, ma non si cambiasse la dinamica degli investimenti societari a livello di tetto salariale ed acquisti (o non cessioni) di giocatori forti, si farebbero le cose a metà e si rischierebbe solamente di rompere il giocattolo e magari peggiorare la situazione.

Il Torino attuale, volenti o nolenti, è imperniato per gran parte sia sul piano tecnico che su quello societario sulla figura di Ventura e finchè sarà così funzionerà più o meno come sta funzionando ora. Per avere un Toro davvero vincente non basterebbe un altro allenatore, ci vorrebbe un “altro” Cairo, cioè un Cairo fortemente deciso a provare a fare il salto di qualità mettendoci del suo, anche solo per il prestigio personale. E la storia stessa del Torino lo dimostra: si è vinto solo con allenatori innovativi per i loro tempi (Erbstein e Radice) supportati da presidenti che comunque avevano investito molto (Novo e Pianelli). Per ora, e non possiamo neppure lamentarci più di tanto, rimaniamo prigionieri di questa crescita, nostra croce e delizia, ma la chiave per uscire da questa prigione c’è ed è nella tasca di Cairo, proprio accanto al suo portafoglio….

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