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Toro, mentalità perdente? Più che altro perdita di identità

Alessandro Costantino
Alessandro Costantino Columnist 
Il Granata della Porta Accanto/ La distinzione tra vincere e perdere quando si parla di Toro è riduttiva e non inquadra il vero nocciolo della questione: è l'identità che dà un senso a tutto, anche a come si vince o si perde

Marco Cassardo è un professionista del settore che collabora con tanti atleti di alto livello ed è anche un grande tifoso del Toro: sulle nostre pagine sostanzialmente dice che i frequenti cali di tensione della squadra e, più in generale, le ultime annate tendenzialmente mediocri del Torino sono dovute ad una "mentalità perdente" che emana dagli alti vertici della società e che permea tutto l'ambiente. Secondo Cassardo "si è creata una logica inconscia per cui il Torino non deve per forza vincere, al Torino basta fare i suoi bei campionati da nono posto, l’Europa neanche dichiarata come obiettivo: si è instaurato un clima molto riduttivo a livello di ambizioni". Affermazioni forti che però trovano una larga parte di tifoseria (me compreso) sulla stessa lunghezza d'onda. Sono cose che anche in questa rubrica abbiamo sottolineato più volte: la sensazione che non si voglia fare un vero salto in alto, la mancanza di una strategia di crescita di lungo periodo che sia alternativa all'autofinanziamento societario garantito dalle plusvalenze, l'assenza di patrimonializzazione attraverso l'acquisto di strutture di proprietà (stadio, centro sportivo, ecc.), un organigramma societario "stitico" per una realtà professionista di alto livello. Cassardo rimarca queste ed altre cose, ma la battuta sulla mentalità perdente è quella che più fa male perchè colpisce dritto il cuore del tifoso granata.

A mio parere, pur condividendo il ragionamento del famoso mental coach torinese, in realtà occorre fare un distinguo forse apparentemente di poco conto ma nella sostanza molto importante per la scala dei valori che da sempre contraddistingue la storia del Torino. Vincere per chi fa sport a livello agonistico è importante, inutile negarlo: nessun atleta professionista scende in campo solo per partecipare. Il Torino ha un passato ricco di vittorie e un palmares di tutto rispetto all'interno del calcio italiano. La vera differenza tra il Torino e le altre società è sempre stato il fatto che, grazie anche ad un connubio quasi unico con la sua tifoseria con la quale condivide mentalità e valori, vincere non è mai stato l'unica cosa che conta. E di questo tutti noi ne siamo sempre stati orgogliosi: vincere sì, ma rimanendo entro certi perimetri, vincere sì, specialmente se contro tutto e tutti, vincere sì, ma non ad ogni costo. Vincere non è un verbo tabù in casa Toro e nemmeno deve esserlo, perchè ha un significato importante nella storia granata, soprattutto in relazione al modo in cui lo si fa. Io stesso ho applaudito la squadra più volte anche di fronte a delle sconfitte (me ne ricordo una col Piacenza in serie B al Delle Alpi dove sembrava quasi che avessimo vinto pur avendo perso immeritatamente 0-1) se riconoscevo nel modo di stare in campo dei giocatori che si fosse onorato il "patto" che storicamente esiste tra chi tifa la maglia granata e chi ha l'onere e l'onore di portarla in campo. Io non voglio un Toro bello e perdente come non lo voglio scorretto e vincente.

La distinzione tra vincere e perdere, però, quando si parla di Toro è riduttiva e non inquadra il vero nocciolo della questione che alla fine è racchiuso in una semplice e magica parolina: identità. Quando penso a cosa voglia dire tifare Toro, nel mondo vedo solo un esempio che, pur coi suoi tratti unici ed irripetibili, può rendere l'idea a chi non lo capisce: l'Athletic Bilbao. La società basca accetta solo giocatori baschi e si fonda su di una caratteristica unica che richiama ad un'identità ben precisa (in questo caso nazionalistica) che accomuna chi ci gioca e chi la tifa. Il Toro, pur con un'identità meno marcata perchè non basata su un fattore "patriottico", in realtà storicamente si basa su uno schema di fondo molto simile: il tremendismo, il non mollare mai, l'antagonismo verso l'altra squadra cittadina, il conto aperto col destino sono tutti valori che fino a poche decine di anni fa erano comuni a chi scendeva in campo e a chi stava sugli spalti. Il vivaio era il trait d'union tra la tifoseria e la prima squadra: giovani (magari già tifosi) cresciuti in un certo modo che una volta grandi incarnavano sul rettangolo verde le aspettative di chi li sosteneva con passione. Oggi semplicemente per tutta una serie di circostanze esterne (la deriva economicista del calcio moderno) ed interni (pessime gestioni societarie da Calleri in avanti) hanno portato ad una progressiva perdita di identità che si riflette in una minore forza della squadra nel panorama italiano. Il Toro che si faceva rispettare da tutti e che sapeva anche costruire cicli vincenti (il Grande Torino ed il Torino degli anni Settanta) non c'è più e la società attuale (e qui mi lego a quanto sostiene Cassardo) non è in grado di ricostruire quel binomio vincente in cui l'identità della squadra era la stessa dei tifosi. La cosa grave è che, contrariamente a quanto ci vogliano far credere, in realtà sarebbe possibile seminare in questo senso, provando davvero a rifare del Torino il Toro. La cosa grave non è un Torino che non vince, ma un Torino che nemmeno ci prova a costruire se stesso per tornare a vincere. Quanto vuote suonano ancora oggi le parole di Ventura quando diceva che voleva ricostruire la cellula granata dalla quale ripartire. Ripartire siamo ripartiti, per carità, grande merito a lui, ma quella cellula, di granata, aveva ben poco ed oggi la conferma è sotto gli occhi di tutti...

 

Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finchè non è finita.