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Toro, quando anche il cuore ha bisogno di qualità

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C'era una volta un tempo in cui il calcio era davvero la metafora perfetta della vita. Era un tempo in cui, come nella vita vera, non importava quale avversità si ponesse di traverso o quale carenza uno potesse avere: la voglia, la...
Alessandro Costantino
Alessandro Costantino Columnist 

C'era una volta un tempo in cui il calcio era davvero la metafora perfetta della vita. Era un tempo in cui, come nella vita vera, non importava quale avversità si ponesse di traverso o quale carenza uno potesse avere: la voglia, la determinazione, la grinta o, più banalmente, "il cuore" potevano fare la differenza e spesso ribaltare situazioni, sulla carta, senza via d'uscita. Era un tempo in cui una squadra, il Toro, era famosa per avere una sorta di copyright su questa particolare arte: insegnata ai giovani del suo vivaio e trasferita per osmosi a chi transitava in prima squadra, il "tremendismo", o il "cuore granata" che dir si voglia, erano la risorsa in più, l'arma segreta, l'asso nella manica da tirare fuori quando le cose si mettevano male. Non c'era garanzia di successo, né di soluzione per ogni brutta situazione, ma il ricorrervi dava, indipendentemente dal risultato finale, almeno un senso di sollievo alla coscienza oltre alla consapevolezza di aver fatto tutto quanto in proprio potere per dire l'ultima parola sul proprio destino.

 

Chi sabato sera era al Comunale a vedere Toro-Napoli ha probabilmente assistito al canto del cigno del "cuore granata" così com'era inteso in quel tempo. Sia ben chiaro, è ormai da molto che purtroppo il Toro ha perso "l'esclusiva" sulla grinta e sul "cuore oltre l'ostacolo" e non è stata certo la partita di sabato a sancire nessuna svolta negativa in questo senso. E' orribile dirlo, ma il cosiddetto calcio moderno, coi suoi ritmi ossessivi, le sue regole bislacche e gli arbitraggi che hanno reso il gioco sempre più algido e sempre meno "sporco" nel senso buono del termine, ha ormai certificato che le squadre vincenti lo sono sia per l'alta media della qualità tecnica dei propri giocatori, sia per la capacità il più elevata possibile di saper "soffrire" sportivamente parlando. Tradotto significa che le migliori squadre non sono più un agglomerato di "fighette" spaventabili facilmente se in presenza di avversari particolarmente "tosti", ma gruppi solidi di calciatori abituati sempre di più a "cantare e portare la croce".

 

Vi siete mai chiesti come mai non nascono più numeri 10 forti, ma in compenso ci sono sempre più 4 e 8 capaci, ogni tanto, di fare qualche gol "da numero 10"? La risposta è semplice perchè è proprio legata a questa trasformazione del calcio che ha portato i gregari ad avere anche qualità da leader e numeri da campioni e i campioni ad essere merce sempre più rara. Il caso di Dzemaili di sabato sera è probabilmente eccessivo (vista la sua scarsissima vena realizzativa in carriera) ma rende bene l'idea di quanto ho appena detto: un onesto centrocampista che tira fuori tre conigli dal cilindro...

 

Il Toro ci ha provato, ha dato tutto quello che i propri limiti gli permettono, andando persino oltre fino all'ottantesimo. Poi è stato schiantato dalla qualità assoluta di un campione come Cavani: uno che in 26 minuti fa due gol e nel mezzo ne sfiora un terzo incredibile. Possiamo discutere della serata storta della nostra difesa, dei cambi cervellotici di Ventura (perchè Masiello?), dell'inesperienza di una neopromossa che a dieci minuti dalla fine e con la gran impresa in tasca si accartoccia su se stessa e ne esce con le ossa rotta. Possiamo cercare colpe o sfortune assortite (tre gol in una partita Dzemaili non li farà più nemmeno in un'amichevole con una squadra di Promozione...), ma alla fine la chiave di questa sconfitta è legata ad un solo fondamentale fattore: la qualità. Che il Napoli ha in gran quantità e noi no. Fine della storia.

 

Non mi piace sentire Ventura dire che abbiamo giocato con troppo cuore e poca testa, come se fosse un'onta per il Toro e non esattamente il contrario. Ma il mister sa che se il Torino inteso come società, squadra e tifoseria vuole sbarcare sul pianeta Calcio Moderno, deve iniziare a trangugiare e digerire il più in fretta possibile concetti ostici, a cui non è abituato, come questo. Meno cuore, più testa. Mi fa male solo a scriverlo, ma non c'è alternativa per sopravvivere oggi. E, aggiungo io, più qualità possibile. Adoro Gazzi, non penso che sia inferiore a Dzemaili, ma se vuole, non dico fare una tripletta, ma quantomeno qualche gol pesante, dovrebbe ogni tanto provare a tirare in porta come ha fatto lo svizzero. Se capita agli altri perchè non può capitare anche a noi? Magari comincerà tirando fuori o prendendo pali, ma poi diventerà una minaccia per i portieri avversari i quali oggi dormono sonni tranquilli quando ha la palla tra i piedi perchè tanto sanno che non tira mai. Più testa, più qualità, più risultati. E a tal proposito non posso non ricordare a chi pensa che Bianchi guadagni troppo, che per avere un attaccante più forte di lui, con più qualità, occorrerà pagarlo molto di più, alla faccia dei tetti salariali. Oppure semplicemente aspettare quei 4-5 anni in cui Parigini diventerà un grande centravanti. Ovvio che sto drammatizzando e parlando per iperboli: so benissimo che tra Cavani e Bianchi c'è molto nel mezzo a cui attingere senza aspettare che Parigini esploda.

 

Tuttavia mi resta questo profondo vuoto dentro, quasi come se mi mancassero i punti di riferimento. Era bello pensare, come sabato sera fino all'ottantesimo, che tutto è possibile se ci credi e butti il cuore oltre l'ostacolo. C'era un tempo in cui il calcio mi sembrava più semplice e la vita altrettanto. Meno cuore, più testa. Mi sembra una bestemmia...E se poi funzionasse davvero?

 

Alessandro Costantino

Twitter: AleCostantino74

(Foto Dreosti)

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