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Toro, quando scendi in campo

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Sotto le granate / Torna l'appuntamento con la rubrica di Maria Grazia Nemour: "Chi dovrebbe scendere in campo e non lo fa, desta scalpore"
Maria Grazia Nemour

“Scendere in campo” potrebbe sembrare un semplice modo di dire ma in realtà, come ogni luogo comune che si rispetti, è il mezzo di locomozione di un messaggio profondo: si “scendono in campo” – come l’Accademia della Crusca ha recentemente sdoganato… – le idee, prima delle gambe.

Berlusconi scelse non a caso questa espressione per la sua iniziazione nel mondo politico degli anni novanta, qualcosa di diverso dall’asfittico gesto di fondare un partito. Chi scende in campo vuole mettersi sotto agli occhi di tutti, vuole giocare quello che è. Perfino Benigni rimase colpito da questa espressione di Berlusconi e non riuscì a trattenersi dal raccontare che da bambino sentiva suo nonno annunciare al mattino la stessa cosa: scendo in campo. Carta igienica sotto al braccio, e via.

Chi dovrebbe scendere in campo e non lo fa, desta scalpore. Domenica, Icardi, l’Inter se l’è guardata seduto in tribuna, niente campo. Con la moglie a fianco. No, forse era la procuratrice. O forse una show girl che versa lacrime nella televisione del pomeriggio raccontando le tristezze del calciatore che gli gira in mutande per casa. Non so, mi pare fosse bionda.

Del resto, chi se ne frega dell’Inter, noi domenica siamo scesi in campo eccome, e lo stadio era quello del Napoli! Un Toro che ha resistito alle bordate di una squadra agguerrita, potente, veloce, tecnica. La seconda del campionato, lontana dalla prima quanto dalla terza. Al San Paolo si è sentito un Toro che a più riprese ha sbraitato NO! Conquistando anche le attenzioni della fortuna con la propria audacia. Le imprese indimenticabili sono quelle più disperate, su quelle, bisogna avere il coraggio di fare la puntata. Non abbiamo vinto, ma abbiamo usato tutto quello che c’era in corpo per non perdere.

Ma c’è qualcun altro che domenica è sceso in campo e lo ha fatto con genuino coraggio. Una prova di carattere che se non ti annienta, ti rinforza. Sono i sette ragazzi del Pro-Piacenza (o meglio, sei duemila ai quali si è aggiunto il massaggiatore, che ha sostituito uno dei ragazzi che aveva dimenticato il documento di identità a casa, capita, quando si raccattano persone al telefono la sera prima di giocare. Davvero non c’è limite alla fantasia di questa partita. Nel secondo tempo quel pover’uomo del massaggiatore che era entrato con il numero appiccicato con lo scotch sulla schiena, esce, ma il documento mancante arriva e si conferma la formazione a sette) scesi in campo contro il Cuneo. Sette contro undici. Una partita fantozziana, fatta di quel riso amaro tipicamente italiano che Villaggio ha saputo raccontare in modo così lucido. Con il mega direttore galattico – il ministro dello sport – e tutta la direzione generale, da Gravina a Ghirelli, che permettono un calcio di Legapro giocato sulla pelle umana, la pelle di tanti ragazzi, umiliati dall’assenza di serietà, regole e professionalità. Un ragionamento d’altra parte coerente con l’investimento che l’Italia da anni fa sui più giovani: per voi non ci sono soldi. Voi, non siete una priorità. Il calcio che ci interessa è quello che fa venire le voglie agli sceicchi, quello che sposta i bilanci delle banche, quello del gossip e delle fidanzate in bikini dei giocatori. E allora facciamoci una bella risata mentre scendono in campo sei ragazzi più un massaggiatore e corrono per uno zero a venti che segna la sconfitta dello sport calcio.

Ma poi… poi in campo spuntano i fiori della Primavera. E ci rimangono per un tempo infinito in campo, centoventi minuti più i rigori. Giocano da toro, come tanto piace dire a noi del toro. Da toro vanno in vantaggio, si fanno raggiungere, provano a chiudere e poi di nuovo pareggio, Da toro non mollano, nonostante la stanchezza, nei supplementari. Da toro vincono ai rigori e la Supercoppa è per tutti loro. Per tutti noi, che siamo toro, e ogni volta scendiamo in campo.

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