Cuba, novembre 2000, l’auto noleggiata era irrimediabilmente in panne sulla strada che da Varadero porta a l’Havana. Un ricordo, in modo particolare riaffiora ogni volta che penso a come sia cominciato il coinvolgimento vero verso Cuba, l’inizio di una vaga intuizione, divenuta poi consapevolezza che nulla sarebbe più stato come prima. E’ un’immagine curiosa nella sua banalità, la semplice attesa sotto una tettoia di metallo, alla fermata di un autobus, su cui batteva una pioggia fine. L’uomo aspettava pazientemente senza dire niente, e ogni tanto sbirciava me ed i miei amici, con un mezzo sorriso indecifrabile. La pioggia era solo una scusa. A nessuno, lì, importava nulla di bagnarsi, faceva abbastanza caldo da infradiciarsi comunque per l’umidità, e starsene sotto quella tettoia era soltanto una buona occasione per osservare questi tre turisti stranieri disperati, alle prese con un’automobile che non ne voleva più sapere di ripartire. L’uomo aveva un’età indefinibile, forse era molto più vecchio di quanto apparisse, indossava una tuta di cui si era smarrita ogni memoria dell’originario colore, e teneva le mani in tasca aspettando forse che smettesse di piovere, mantenendo però quella sua calma impassibile. Il suo volto era perfettamente cubano, secondo l’immaginario di cui disponevo in quel mio primo viaggio: tratti vagamente africani, e lontane eredità andaluse mischiate ad un certo non so che di indio. Lui continuava a non dire niente, e la pioggia a battere sulla lamiera metallica. La strana sensazione che avvertivo l’avrei afferrata molto più tardi: stavo perdendo la fretta, l’ansia dei ritmi che mi ero portato appresso cominciava a sfaldarsi, e il sintomo impalpabile era quel semplice ascoltare la pioggia e smettere di chiedermi quando saremmo arrivati all’ Havana e soprattutto di come fare a mettersi in contatto con l’autonoleggio, visto che a quei tempi a Cuba i nostri telefoni cellulari erano pressoché inutilizzabili. Il mio tempo non era il tempo della realtà che mi circondava. Fino a quel momento lo avevo speso male, illudendomi di vedere più cose andando più in fretta. A un certo punto disse: “Credo che pioverà tutto il giorno, se volete posso chiamare un mio amico e vedere di aggiustare la vostra macchina”. Un rapido sguardo di intesa ed io ed i miei due amici accettammo prontamente, Bartolomè, così si chiamava, si allontanò lentamente con la promessa che da li a poco sarebbe tornato con il suo amico in nostro soccorso. Era passata circa una mezz’ora, quando Bartolomè tornò a bordo di un auto improponibile, ma comunque funzionante, al volante c’era il suo amico, un uomo di circa cinquant’anni che si presentò come il mago delle autoriparazioni. La nostra Hyundai venne trainata dalla Cubamobile, così la chiamarono i nostri due nuovi amici, e ci accompagnarono nella loro officina. Arrivati in officina scoprimmo che il meccanico si chiamava Luis, nel suo mestiere si poteva ritenere un fuoriclasse, senza attrezzatura riusciva a compiere veri e propri miracoli di meccanica sulle vetuste automobili cubane. La sua diagnosi sulla nostra vettura fu tutto sommato accettabile, tempo tre ore e saremmo potuti ripartire. Luis e Bartolomè iniziarono a farci domande sull’Italia e come spesso succede si finì di parlare di calcio. I miei due amici erano quasi totalmente indifferenti verso questo sport, quindi rimasi solamente io a discutere con loro di football, mi chiesero notizie delle grandi squadre europee e di quelle spagnole in particolare. Ad un certo punto, Luis mi disse che voleva mostrarmi una cosa che custodiva , e cioè la foto della più grande squadra di calcio di tutti i tempi. Mi accompagnò nel retro dell’officina dove troneggiava un tavolo su cui erano disposte decine di riviste impolverate, avvicinandomi a quell’immagine le gambe iniziarono a tremarmi, la fotografia in questione era davvero quella della più grande squadra di tutti i tempi, ma era pure la nostra squadra, era infatti la foto del Grande Torino, quella consueta che tutti noi conosciamo perfettamente. La mia sorpresa fu immensa, credo che in quel momento iniziai a balbettare e raccontai a Luis, nel mio spagnolo ancora stentato, quanto fossi tifoso di quella squadra e che per me vedere a migliaia di chilometri dall’Italia la foto degli Invincibili era come poter riabbracciare qualcuno di famiglia. Luis mi raccontò che suo padre originario della Spagna lavorò e diventò amico con un italiano nel secondo dopoguerra e che entrambi lasciarono la Spagna, all’inizio degli anni cinquanta a causa della dittatura di Franco, stabilendosi così a Cuba, dove aprirono in seguito, quell’officina di autoriparazioni e che quella foto del Grande Torino era l’unica cosa che Francesco, il socio di suo padre, si portò dall’Italia. Luis mi narrò che entrambi vissero tutta la loro vita nell’isola caraibica mettendo su famiglia, Francesco non ebbe figli e Luis non levò mai quella fotografia, proprio perché il socio di suo padre era estremamente legato a quell’immagine. Luis non seppe dare risposta alle mie domande, non sapeva di che parte dell’Italia fosse originario Francesco, non sapeva nulla di quello che era stato in Italia, sapeva solamente che si era conosciuto con suo padre in Spagna e che erano emigrati entrambi a Cuba, alla ricerca di un qualcosa di diverso. Il Grande Torino, era probabilmente l’unica cosa che questo nostro connazionale voleva ricordare dell’Italia, o almeno, a me piace immaginarlo così! Quando l’automobile fu pronta salutammo i nostri salvatori e tornammo all’Havana, il giorno seguente ci aspettava l’aereo per il ritorno a casa, promisi però loro che un giorno ci saremmo rivisti. L’anno successivo tornai a Cuba, in valigia mi ero portato la maglia numero 10 del Toro da regalare a Luis, ritornai alla sua officina, ma Luis non c’era più. Chiesi in giro, nessuno sapeva nulla di lui, era sparito, forse era uno dei tanti cubani fuggiti in Florida oppure semplicemente si era spostato all’interno dell’isola. Chissà che fine avrà fatto Luis e con lui la fotografia degli Eroi di Superga! Raccontandolo, non sembra significare granché. E’ solo un frammento, un punto di partenza. Ma ben poche altre cose, avrei compreso di Cuba, senza quell’incontro e senza il contatto a volte fugace, ma sempre profondo di gente come Luis e Bartolomè. Loro non sapranno mai quanto sia stato utile per me quella lunga mattinata, fermo in un punto imprecisato della via Blanca fra l’Havana e Varadero. O forse l’hanno saputo fin dal primo momento, notando il lento sgretolarsi della mia fretta di andare da nessuna parte, mentre guardavo emozionato la foto del Grande Torino. Luis e Bartolomè ovunque voi siate, dovete sapere che non potrò mai dimenticare quell’incontro granata, che a volte, nella memoria riaffiora! Beppe Pagliano (parlane con me su Twitter @beppepagliano)
columnist
Toro, quella speciale numero 10
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