columnist

Tu puoi

Anthony Weatherill
Loquor / Finita l'epoca degli oratori, dove possono sbocciare i talenti del futuro?

"Timshel" (tu puoi) è una delle più importanti e significative parole della lingua ebraica. Essa implica una scelta, e va a significare che la via è aperta. Rimette tutto all'uomo. È importante perché se "tu puoi", e anche vero che tu "non puoi". Per il grande filosofo danese Soren Kierkegaard, scegliere in realtà era la prova dello stato di dramma permanente in cui si trova l'uomo. Di fronte ad una "possibilità che sì" e ad una "possibilità che no", egli (l'uomo) si accorge di non possedere alcun criterio di scelta. In parole povere sovente brancola nel buio. Spesso, però, si dimentica che, in ogni caso, sono proprio le persone brancolanti nel buio che fanno accadere le cose. Se uno dei più geniali matematici mai esistiti, Blaise Pascal, era arrivato a sostenere che la scelta della cosa più importante della vita, il lavoro, è affidata al caso; allora si deve per forza giungere ad una conclusione: nello sport italiano, e quindi anche nel calcio, si sta sbagliando davvero tutto.

Qualche giorno fa Vittorio Feltri, direttore editoriale e fondatore del quotidiano "Libero", ha vergato un interessante articolo sull'esperienza (in parte anche sua) e la storia degli oratori italiani. Feltri racconta di  un’Italia,   dal dopoguerra in poi e prima che diventasse eccessivamente “americana”,  che riconosceva negli oratori un necessario punto di aggregazione giovanile di estrazione cristiana e non (Feltri, per esempio, non è mai stato credente). Negli oratori  si praticavano sportv(erroneamente si è portati a ritenere che l’unico sport praticato fosse il calcio), si avevano i primi approcci con il teatro, con il cinema, con la formazione professionale. Tutto, negli oratori, era svolto nel nome della gratuità, laddove per gratuità non si deve intendere solo in quello di mancanza di scambio di denaro, ma anche in quella gratuità quasi folle che determina ogni azione dell’infanzia e dell’adolescenza. Una gratuità in cui gli adolescenti vivono le cose con anarchia, sregolatezza e naturalità,  e che la modernità contemporanea tenta di imbrigliare e ridimensionare all’interno e in funzione di una cultura della norma. Negli oratori raccontati dal giornalista bergamasco, gli infanti e gli adolescenti potevano tranquillamente, e senza che su di loro si gravasse una qualche responsabilità, un giorno giocare portiere in una partita al campetto, e il giorno dopo dedicarsi a qualche tiro a canestro o ad una corsa di resistenza. Questo mentre si provava a mettere in piedi una pièce teatrale, immaginandosi per qualche ora attori o drammaturghi. E tutto questo avveniva in un contesto di libertà, che permetteva ad ognuno di scoprire il meglio di sé. Chi giocava a calcio, e non frequentava gli oratori, aveva a disposizione cortili e campetti di fortuna per divertirsi, e provare, e osare.

Ed è in questi momenti di pura gioia, che a qualcuno capitava di scoprirsi un talento così pronunciato e particolare da prefigurarsi un’ipotesi di “provino” presso il settore giovanile di qualche squadra importante. Oppure erano tifosi improvvisatisi osservatori, a segnalare il genio apparso improvvisamente in un cortile o in un oratorio. Erano tempi in cui tutti potevano partecipare alla vita della propria squadra del cuore, e in cui la squadra del cuore lo consentiva come la cosa più naturale del mondo. Fu Bob Bishop, di professione lattaio ma anche osservatore del Manchester United, a scoprire in un dettaglio della struttura urbana di Belfast il talento fuori dal tempo di George Best. “quando ero ragazzo avrei giocato sette giorni su sette”, ebbe modo di raccontare il fuoriclasse nordirlandese, in molti di quei momenti in cui un giovane uomo ama ricordare il suo recente passato. Il calcio, e molti altri sport, si sono alimentati per moltissimo tempo dell’anarchia, della libertà e della gratuità che faceva decidere al caso la scoperta di un campione. "Se non si è toccato un pallone a piedi nudi almeno una volta, non saprai mai veramente cosa sia”, recitava la battuta di un film. Ma la società del benessere e del passatempo organizzato ha da tempo dimenticato la conoscenza del camminare a piedi nudi, e sarebbe (giustamente) passibile di allarmismo o denuncia un genitore che facesse circolare per strada un figlio a piedi nudi. Non si può vivere guardandosi indietro, le cose cambiano e portano le persone verso nuovi scenari e nuove abitudini. Oggi gli infanti e gli adolescenti praticano sport in strutture organizzate e a pagamento, e non possono saltare da un sogno all’altro, come negli oratori descritti nell’ articolo di Vittorio Feltri.

Non ci sono tifosi che, casualmente, li vedono provare virtuosismi in qualche luogo improbabile, ma genitori che li controllano severamente da tribune improvvisate in palestre e campi in erba sintetica. Genitori  “controllori” con l’orologio in mano, ansiosi che finiscano quelle due ore bisettimanali (o settimanali) pagate in una retta mensile stabilita. Forse l’Italia non ha, da tempo immemorabile, atleti di livello nel fondo e mezzo fondo, perché non c’è nessuna palestra o società amatoriale che chieda a dei genitori una retta mensile, per vedere correre i propri figli verso un orizzonte infinito. O forse dei genitori troverebbero assurdo pagare per vedere degli adolescenti, semplicemente, correre. I bambini non giocano più a calcio fino al calar della sera, ma sono irreggimentati in scuole calcio. Se qualcuno bravo viene fuori, e prima o poi in un Paese come l’Italia viene fuori, non viene notato da un tifoso appassionato osservatore, ma da un procuratore. Ed ecco  il divertimento  trasformarsi immediatamente in commercio. E se, come si è detto, non si può vivere guardandosi indietro, qualche rimedio alla mancanza di campioni bisogna pur trovarlo. E se lo spirito dell’oratorio e del cortile questi campioni li ha dati, allora forse occorrerebbe guardare a modelli similari.

Pensare a delle polisportive, a dei luoghi dove tutte le società sportive di un determinato territorio si possano ritrovare per celebrare lo spirito dello sport, mettendo insieme ogni  risorsa economica e strutturale, potrebbe essere una risposta con uno sguardo rivolto al futuro. Non sarebbe male se insieme ad un Toro calcio, esistesse un Toro pallacanestro, un Toro Pallavolo, un Toro Pallamano, ecc. Non sarebbe stato male se il rinato Stadio Filadelfia ci fosse stato un canestro dove dei bambini convenuti ad assistere all’allenamento dei granata, in un momento di fantasia, avessero avuto voglia di provare un terzo tempo o un tiro a canestro. Non sarebbe stato male  trovare una piccolo quadrato di cemento dove provare a fare qualche scatto con i pattini. Magari si sarebbe già scoperto qualche prodigio in erba del pattinaggio a rotelle. Bello sarebbe se lo sport tornasse ad essere quel luogo dove il bambino riscoprisse quel “tu puoi”, che è il valore principale di ogni competizione sportiva, e di ogni attimo della nostre vite. Questo vorrebbe dire tornare ad essere una comunità (i tifosi di una squadra non sono forse una comunità?).

L’Italia, nel tempo, è stata scritta e riscritta come su una lavagna, ma il calcio avrebbe dovuto rimanere la sua costante nel tempo. Il calcio italiano ha regalato miracoli, improvvisi tracolli, favole degne di essere raccontate,  ammirate in ogni parte del mondo. Ma ora questa costante pare essersi smarrita, i luoghi del “tu puoi” sembrano essersi persi in una delle tanti vertigini che la vita impone. Ma certe cose non si distruggono, sono solo riposte in qualche cassetto in attesa di essere tirate fuori. In una recente intervista Nicolas N’Koulou ha ricordato  che “i bambini devono fare quello che vogliono… io ad esempio vengo da una famiglia di musicisti, ma mia madre ha sudato perché io intraprendessi la carriera di calciatore”. Sport, arte, sogni, lavoro, sentimenti… forse si dovrebbero creare le premesse per lasciare che il caso faccia il suo lavoro. In questi giorni è scomparso Stephen Hawking, uno dei più prestigiosi scienziati del nostro tempo, ed è quanto mai necessario ricordare a chi si occupa di organizzare lo sport per i nostri figli un suo celebre pensiero: “ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi… per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire”.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.