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columnist
A volte mi faccio proprio tenerezza. Domenica camminavo verso lo stadio incrociando i tanti tifosi napoletani con i loro discorsi dall’inconfondibile accento partenopeo, e pensavo: ce la possiamo fare. In realtà è una cosa che penso sempre quando guardo una partita del Toro, a partire dal derby e giù a seguire tutte le altre gare. Perché credo che uno nella squadra del cuore ci faccia passare il sangue, è un affare di famiglia, per questo vittorie e fallimenti non scivolano via ma si appiccicano addosso. C’è sempre un lato della famiglia formato da zii e cugini pessimisti cronici, che alla quinta giornata il campionato lo hanno già perso, e va bene, sono parenti pure loro. Realisti? Boh, forse. Quello che tutti vorremmo è un capofamiglia saggio, capace di mettere in luce il talento di ogni nipote quando lo spinge in campo, perché lo conosce, sa cosa può aggiungere e come non bruciarlo. Quando seguo la mia famigliola Toro allo stadio o al bar, tento di non portarmi dietro negatività e frustrazione, perché sarà stupido, ma sono convinta di partecipare anche io alla sfida, e di poterci mettere un po’ del mio, per giocare meglio. Un supplemento di energia. Questo, è il massimo che posso fare per il mio Toro. Il Toro di mio padre era diverso, me lo raccontava sfogliando fotografie in bianco e nero, dove il granata te lo dovevi immaginare. E a seguire fotografie con fiori e baffoni anni ‘70, farfalle, scudetti e ideali rivoluzionari da portare in curva. Quello di mio nonno, di Toro, era un’altra cosa ancora, rimane da sempre la favola prima di dormire, la buonanotte.
Domenica il Toro non ha funzionato. Ma non credo solo per colpa mia. E non credo solo per colpa dei giocatori che in campo sembravano inventarsi sul momento, singhiozzando a stento tre passaggi di seguito. Mazzarri in conferenza stampa dice di non sapersi spiegare l’atteggiamento sconclusionato della squadra e fa bene a usare il plurale - Oggi è sembrato come se ci fossimo scordati tutto. Non eravamo in campo tutti, sembravano i fratelli di quelli visti a Udine, meno male che domani non c’è la giornata di riposo. Guarderemo il video e capiremo gli errori – ma mi auguro che col passare delle ore e l’intiepidirsi del sangue, il capofamiglia si sia chiesto: dove ho mancato? Cosa dovevo fare di diverso per il mio figliol prodigo, per il mio Toro? L’allenatore deve avere un master in miracoli? Be’… qualcuno dovrebbe saperlo fare, sì. Deve avere il talento di amalgamare tecnica e tattica con motivazione, passione e caparbietà. Saper leggere le persone, prima ancora che le partite. E’ che domenica tutto ha girato di traverso, a iniziare dal ritardo sul calcio di inizio, costato quasi mille euro a minuto. A seguire, il primo gol incassato sotto il sole cocente della mezza a Torino, e poi ancora uno, senza la minima reazione granata. Per trovare un guizzo di orgoglio e rimonta bisogna attendere il rigore calciato dal Gallo: angolo basso, che non si lascia prevedere dal portiere. Bene, avevamo bisogno di quel rigore, un po’ per rinforzare l’autostima del Capitano, un po’ per far ripartire la partita. Una partita che davvero si era riaperta con un gioco dignitoso che avrebbe potuto diventare pericoloso, se non avessimo smesso subito di crederci, abbassando la testa per il terzo castigo. Il Napoli si è dimostrato nettamente superiore a noi domenica, non c’è santo.
Aina ha giocato come ha potuto, così come Berenguer, e proprio non è bastato. Izzo aveva la retro inserita e a passare la palla davanti avvertiva il reflusso, proprio non ce la faceva. Il piglio di chi difende l’uno a tre con fermezza. Meité ha tentato, ma non è stato risolutivo. Davanti i palloni arrivavano poco e quel poco è stato sprecato. È giusto che negli ultimi minuti i napoletani abbiano spiegato a noi e alla mamma perché a loro batte il 'corazón', perché innamorati son. Eppure anche io sono innamorata, varrà pur qualcosa, no? Mercoledì abbiamo un impegno. Sarebbe stato emozionante averlo con la Champions l’appuntamento, ma quella, per il momento, di noi non ne vuole sapere. Chissà. Vediamo di fare una buona gara contro l’Atalanta, di riconoscere il Toro in campo, sulla panchina e nella bocca di chi lo urla. Di chi è arrabbiato, deluso e non si accontenta, ma nonostante tutto, è e rimane, un innamorato. Perché un altro Toro, nel sangue, non ce l’ha.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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