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columnist
Domenica giocheremo senza Capitano, era diffidato e salterà il duello sardo.
Spero che la fascia la metta al braccio Moretti, che nel metro e mezzo di curriculum che può srotolare, vanta il maggior numero di presenze con la maglia granata addosso, vanta il titolo di calciatore esordiente in Nazionale più maturo (no, la voce “rassegnazione” proprio non è contemplata nel suo curriculum) e il recente riconoscimento di Ambasciatore dello sport. Moretti è quello che se il Toro perde, a fine partita va con Belotti sotto le curve ad applaudire, prendendo sulle orecchie tutto quello che viene.
Belotti e Moretti sanno essere Capitani nelle avversità, che nelle vittorie lo sanno fare tutti.
L’invidia è un sentimento che di norma non mi appartiene, eppure ricordo di aver profondamente invidiato la Roma in un’occasione, era il settembre del 2016, la nostra fascia la portava al braccio Vives, soldato onesto, ma…soldato appunto, gli mancava qualcosa per essere Capitano, e lui era il primo ad avvertire quel disagio. Nella ripresa entra in campo Totti e il settore ospiti esplode: ho invidiato quel trasporto viscerale verso il Capitano. Anche io, in quel momento, avrei voluto amare così.
Ma la vita ti sorprende se hai fiducia: già quel giorno, contro Totti, correvano in campo sia il giovane Belotti che il consolidato Moretti.
Non tutti possono fare il Capitano.
Ci sono più responsabilità che piaceri, nell’essere Capitano. Ne ho avuto la conferma quest’anno, osservando mia figlia nel ruolo di Capitano di una squadra di piccole pallavoliste. Alla prima partita il mister le ha detto: “Quando ti sarà chiaro che la fascia non la assegno solo per il numero di schiacciate finalizzate in punto, mi spiegherai qual è la dote di un Capitano”. Ben presto ha scoperto che il Capitano deve saper fare molto più di una battuta potente, deve caricarsi la squadra in spalle quando la giornata non gira, incitare e presenziare alle strigliate dell’allenatore rivolte alle compagne, perché prima che alle compagne, le omissioni e gli errori sono per le orecchie del Capitano.
Cosa avrà pensato Capitan Belotti sentendo Meitè dire: “Sono partito forte e poi adesso ho un livello più basso e non so perché anche perché lavoro sempre. Adesso però abbiamo ancora 7 partite e cercheremo di fare le migliori partite possibile. Se posso fare meglio? Sì, è vero lo so che posso fare di più la differenza quindi voglio mettere tutta la mia forza per fare chiudere al meglio il campionato”?
Avrà pensato che conosce bene anche lui quell’interrogativo: perché la musica non mi esce semplice come veniva giù prima?
E forse il Capitano glielo avrà detto a Meitè di continuare a suonare con intensità, senza perdere il ritmo, fino a che torna nell’aria la melodia che si vuole ascoltare.
Gli avrà detto che in una sola settimana c’è spazio per un mercoledì da leoni in cui ti apostrofano “fenomeno”, e un sabato sbiadito in cui proprio non riesci a girare la chiave della partita con un gol.
E forse ancora, Capitan Belotti, avrà appoggiato la mano sulla spalla di Parigini per dirgli che a volte non basta che le cose te le spieghino, ci devi passare dentro e sbagliare, per capire davvero quello che già sapevi: in squadra si può improvvisare, ma la giocata deve essere generosa, mai egoista. La squadra viene prima di te.
E poi c’è il Capitano del Capitano, quello che deve incoraggiare anche quando si infuria, alleviare la pena quando sente che di più non si poteva fare. Quello che non dovrebbe mai essere banale nel giudizio (per quello c’è spazio nelle altre squadre), quello che può pretendere perché non chiede mai più della metà di quanto ha dato. Quello che sulle spalle porta il nome di famiglia scritto sopra al 12: La Maratona.
So di non essere stata un buon Capitano quando sabato ho sonoramente sbuffato vedendo scaldare Zaza, ho un atavico pregiudizio nei suoi confronti che speravo lui cancellasse a suon di prestazioni, e invece no. Comunque, quando uno entra in campo con la maglia granata, va sostenuto fino a quando esce e se la leva. Sudata marcia, possibilmente. Se poi avrà l’onore di metterla ancora, è un altro discorso.
So di non essere un buon Capitano perché incapace di entrare nello stadio dell’anti-calcio per stare al fianco della mia squadra, faccio fatica pure a guardarlo in televisione il derby, tra quei muri. L’ossimoro di giocare il quattro maggio risiede proprio nello stare lì dentro in un giorno in cui si celebra il calcio come meravigliosa espressione di relazioni umane. La Lega renderebbe un servizio innanzitutto a se stessa se spostasse la partita al 3 o al 5, motivando: il 4 maggio, diamo modo alla Juventus – che tanto, tanto ne ha bisogno – di riflettere sull’etica sportiva appartenuta al Grande Torino, patrimonio culturale dell’Italia.
Domenica sera mia figlia era già a letto e dalla sua camera ha urlato: “Mamma, sai come deve essere un Capitano?”
“Dormi, che è tardi”
“Coraggioso”.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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